Le vecchie corriere partirono una dopo l’altra, con il loro carico di stanchezza e speranza.

La polvere sollevata si depositò ed il silenzio pervase l’accampamento svuotato.

Anche Bonfanti se ne era andato. Aveva detto che aveva voglia di stare con qualche donna, fra gente civile, che con i serpenti a sonagli ci rimanessero gli altri, se volevano.

“Gli altri” erano quattro: Morelli, il guardiano della polveriera, il cuoco Galindo e l’elettricista Antonio Jimenez, soprannomitato El Caballo, forse per via della dentatura oppure per la sua capacità di percorrere a piedi grandi distanze e forti dislivelli. Oltre a loro, rimanevano gli asini che si aggiravano pigramente fra le baracche, in cerca di spazzatura da mangiare, che di erba non ce n’era più da mesi, neanche secca.

Morelli cenò solo, nel refettorio deserto, poi bevve un bicchierino di tequila assieme al cuoco, un piccoletto tarchiato, eternamente sudato e col grembiule pieno di patacche da non poter capire che un giorno era stato bianco. Alla fine si ritirò in baracca, dove si mise a fare alcuni conti, scarabocchiò un programma dei lavori per la settimana a venire, poi si addormentò. Aveva un bel tracciare programmi sulla carta… se poi i pezzi di ricambio non arrivavano, le sue previsioni restavano sgorbi senza alcuna attinenza con la realtà. Morelli aveva già notato come ultimamente Bonfanti lo guardava beffardo quando lui gli parlava di metri di avanzamento della galleria: se non si era in grado di aggiustare le macchine, che senso aveva sferzare gli uomini?

“Il lavoro si fa coi locomotori, con le pale e le perforatrici caro direttore, mica con le parole e le buone intenzioni, ha capito? Anzi, lo sa cosa le dico? Se a me mi scocciano ancora un po’ piglio su la mia valigia e me ne vado fuori dalle balle. Anche domani”

La mattina dopo alle sette Morelli si trovava nel refettorio a prendere il suo caffelatte.

Una mosca grassa e verdastra insisteva per sorbire sul bordo della tazza. Morelli la scacciò con la mano, mentre Galindo, a cui il gesto non era sfuggito, li lagnava della scarsa attenzione dell’economo, al quale, diceva, aveva da tempo chiesto di far installare delle zanzariere alle finestre. Più che altro per igiene, sosteneva, ed intanto si puliva nel grembiule l’indice con cui si era appena scaccolato il naso.

In quel momento giunse Antonio Jimenez, El Caballo, con le pinze e i cacciaviti infilati nella cintura dei pantaloni. Mise del pane ed alcuni pezzi di formaggio nel tascapane, riempì una bottiglia di acqua e si accomiatò: “Ingegnere, vado alla galleria due a fare manutenzione al gruppo elettrogeno, poi scendo in sala trasformatori a controllare che l’idrovora funzioni bene, altrimenti si allaga e domani perdiamo il primo turno di lavoro per asciugarla. Non tornerò prima di sera, ha disposizioni da darmi, Ingegnere?”

“No Antonio, ma stai attento ad andare lassù da solo, se ti farai male non ci sarà nessuno che ti aiuti.”

“Grazie Ingegnere, con l’aiuto di Dio non mi succederà niente. Con il suo permesso”.

Dopo la colazione Morelli ebbe voglia di camminare fino alla caverna della centrale, finchè l’aria era fresca, e così avrebbe anche approfittato per passare dalla polveriera a vedere se il vecchio guardiano fosse al suo posto e se magari avesse bisogno di qualcosa. Altro non aveva da fare, ed in quel momento non aveva voglia di pensare al lavoro.

La giornata era chiara, e le rocce cominciavano a scaldarsi al sole. Qualche rettile usciva dalla tana, iniziando l’agguato. Il cammino era pianeggiante, lungo il fondo della vallata, in riva al fiume.

Morelli osservò con calma per la prima volta quei luoghi, che fino al giorno prima brulicavano di macchine rumorose e gente indaffarata, e fu pervaso da un senso gradevole di pace e solennità. Provò rispetto per quel paesaggio non suo, il rispetto che incutono le montagne agli alpinisti, il rispetto che da bambino aveva provato un giorno nella vecchia cattedrale della sua città natale.

Era uno di quei momenti nei quali anche l’ateo avverte il bisogno di un Dio che lo minacci e lo rassicuri, e che dia un senso alle cose. Almeno in apparenza.

I versanti rocciosi della vallata erano quasi completamente privi di vegetazione, ad eccezione di cactus ed altre piante spinose che nel complesso, da lontano, davano l’impressione di incrostare le rocce rossastre come macchie di muffe verdognole.

Tante spine, pensò Morelli, dovevano rappresentare la risposta evolutiva di quei vegetali a millenni di sete e di assalto di animali erbivori perennemente affamati. Infatti, l’unico animale che si poteva scorgere nei dintorni del cantiere, oltre all’asino ed ai rettili, era la capra. La capra, dopo aver sterminato qualsiasi tipo di erba o arbusto, stava imparando perfino a cibarsi delle spinosissime ma succulente sedie di suocera, che crescevano nei dintorni assumendo dimensioni monumentali.

In contrasto, lungo al fiume, la vegetazione resisteva ed il vecchio sentiero che correva parallelo alla strada attraversava macchie di alberi. Alberi anziani, beninteso, giacchè da decenni la presenza delle capre non permetteva loro di riprodursi, in quanto gli alberelli venivano puntualmente divorati.

Per terra, fra la polvere ed il pietrisco, affioravano ovunque piccoli frammenti di vasellame di terracotta e schegge di utensili in ossidiana. Potevano risalire a pochi decenni prima, o essere appartenuti a popoli antichissimi. Sicuramente uno studioso esperto avrebbe riconosciuto sfumature di tecniche e stili differenti, caratteristici di civilizzazioni disperse e sovrapposte attraverso i millenni. Come gli straterelli di sabbia consolidata che formano, nel loro insieme, le rocce sedimentarie.

Non appartenevano certamente a epoche recenti l’ascia di pietra rinvenuta da Jimenez nei pressi della sala compressori, che Suarez usava come fermacarte sulla scrivania, né il teschio con la fronte appiattita venuto alla luce dagli scavi delle fondazioni dei nuovi uffici, che era stato inviato in una scatola al prete di San Fernando perché lo seppellisse in terra benedetta.

Attraverso i secoli, migliaia di persone dovevano essere nate, vissute e morte in quei luoghi inospitali. Per sopravvivere dovevano essersela ingegnata di certo. Del loro passaggio rimanevano quei frammenti di terracotta e rare ossa sbiancate e corrose. Delle loro sofferenze, della loro saggezza, del loro coraggio, dei loro amori neanche il ricordo. Nulla.

A Morelli venne da chiedersi cosa sarebbe rimasto di se e delle sue cose fra cento anni. Nulla.

Cosa sarebbe rimasto della centrale e dell’umanità fra centomila anni. Nulla.

Cosa sarebbe rimasto della diga, enorme struttura in calcestruzzo che avrebbe sbarrato la valle intera, fra un milione di anni. Nulla.

Con questi pensieri passò davanti alla polveriera, un casotto in pietra addossato ad un vecchio cunicolo dove erano tenute le scorte di dinamite, micce e detonatori da cui attingevano più volte al giorno i minatori per le loro volate. Per precauzione era stato scelto un luogo appartato, separato dalla zona dei lavori da uno sperone roccioso, che come un enorme paravento avrebbe protetto le installazioni del cantiere nel caso di una esplosione accidentale. La polveriera era un circondata da un recinto di filo spinato a cui si accedeva mediante un cancello.

Un piccolo fuoco, che non si sarebbe dovuto accendere mai e poi mai in quel luogo, ardeva in un focolare di pietre, riscaldando una tortilla preparata il giorno prima da mani premurose.

Mentre la tortilla si cuoceva, la sentinella stava affilando un pugnale con una pietra, ormai l’aveva ridotto uno stiletto acuminato e sottile.

“Tutto bene Pedro? Stanotte hai sentito ancora le voci?”

“Nessuna novità, Signore”.

Il fiume scorreva vicino, nelle lunghe notti di veglia a volte il guardiano sentiva le voci di anime in pena, fantasmi di genti annegate nei millenni, modulate nel mormorio dell’acqua che dava loro l’energia per sorgere dall’oblio.

Cacciatori, guerrieri, minatori, conquistatori e conquistati… gli atomi dei loro corpi erano giunti all’oceano danzando, mischiati nelle correnti. Chissà quante molecole ci sono nel mondo formate dall’unione di atomi appartenuti al carnefice ed alla sua vittima, allo sfruttato ed allo sfruttatore, al vinto ed al vincitore.

Morelli riprese il cammino, meditabondo e filosofeggiante, fino a trovarsi davanti al portale del tunnel di accesso alla centrale. Esitò un momento, poi imboccò la galleria che conduceva all’immensa caverna frutto del lavoro degli uomini.

La sera prima Jimenez aveva spento l’illuminazione per non sciupare energia elettrica e ora, mentre egli si addentrava, la luce del giorno stentava a seguirlo dall’imboccatura, riducendosi a un tenue riflesso fino a scomparire del tutto dopo qualche decina di metri all’interno.

Nell’oscurità completa l’udito di Morelli si fece più acuto, e proprio dalla percezione diversa dell’eco dei suoi passi capì di essere giunto nella gran cavità. Ma non era solo quello: la presenza della caverna si poteva percepire anche senza emettere il minimo rumore, era la sensazione di un vuoto smisurato.

Morelli pensò che la morte doveva essere qualcosa di simile: il Nulla. La mancanza di percezioni e di sensazioni.

Sentì una goccia d’acqua cadere dall’alto.

Poi, minuti di assoluto silenzio.

Poi d’improvviso la roccia scricchiolò, assestandosi sotto la spinta di milioni di tonnellate di materia sovrastante, ridistribuendo intorno allo scavo equilibri di tensioni radiali e tangenziali. Equilibri precari, perché il destino di ogni cavità nella roccia è quello di richiudersi, non importa in quanti anni o milioni di anni. Le ere geologiche trascorrono senza fretta, a differenza delle vite degli uomini, che amano i fast food dove mangiano spazzatura per “non perdere tempo”, vivere peggio e morire prima. Le montagne sanno aspettare. Tutti i tempi vengono.

Ancora silenzio assoluto, per un tempo indefinibile perché il tempo non é misurabile senza ricorrere ad una successione di eventi.

Anche la mente si fermò, i pensieri svanirono.

In questo vuoto Morelli cominciò a percepire una vibrazione sorda che permeava lo spazio intorno a lui, senza provenire da una fonte definita. L’intensità della vibrazione aumentava. Proveniva dal ventre stesso della Terra. Lo avvolgeva, gli invadeva la mente svuotata da ogni pensiero.

Morelli si sentì attratto in avanti.

Fece alcuni passi senza udirne il rumore, senza accorgersi che il suo corpo si stava spostando nello spazio. Si riscosse, risvegliato dall’istinto di conservazione, quando udì le pietre precipitare nel pozzo della turbina numero uno, mentre il suo piede cercava inutilmente un appoggio nel vuoto.

Annaspò e trovò qualcosa a cui afferrarsi con le mani, forse un tubo o qualcosa del genere.

Tornò sui suoi passi, e ritrovò la luce e il tempo che per istanti od ore aveva dimenticato.

 

Autore: Franco Garelli