La condotta forzata, che collegava la galleria di adduzione dell’acqua con il livello della centrale, passava in un pozzo profondo seicento metri, del diametro di sei, attraverso il quale il fiume, sottratto a monte al suo corso naturale, sarebbe precipitato con la forza di un cataclisma sulle pale d’acciaio delle turbine idrauliche, le quali gli avrebbero sottratto quasi tutta l’energia per regalarla agli uomini. L’acqua, dopo essere passata attraverso la centrale, sarebbe stata risputata nel fiume, dove i pesci ridotti in poltiglia sarebbero divenuti alimento di altri esseri della catena alimentare.

Quel giorno, era mercoledì, si sarebbe detonata l’ultima volata del pozzo, che avrebbe frantumato il rimanente diaframma di pochi metri di roccia che lo separava dalla caverna.

Per l’occasione, l’economo aveva fatto mettere una bottiglia di vino scadente su ciascuno dei tavoli del refettorio.

Nella Centrale, altre bottiglie erano disposte su una tavola, coperta da una tovaglia bianca, assieme ai bicchieri allineati, per il rinfresco di circostanza che avrebbe avuto luogo subito dopo l’ultimo sfondamento.

Tutti i tecnici, i contabili, i minatori, insomma quasi tutto il personale, presenziavano l’evento da una balaustra situata a distanza di sicurezza nella caverna della Centrale.

La gente chiacchierava allegramente, pregustando i festeggiamenti.

Sopra la balaustra era fissato un grande striscione con la scritta: VIVA I MINATORI.

Giusto Bonfanti accese la miccia dell’ultima volata, che aveva caricato e controllato meticolosamente per evitare una cattiva riuscita proprio quando non ci sarebbe voluta.

Nessuno fiatava, nel silenzio della caverna si sentiva lo stillicidio delle gocce d’acqua che piovevano dall’alto. Un filo di fumo bianco proveniente dalla miccia a lenta combustione lasciava presagire l’esplosione.

Dopo tre minuti una moltitudine di scoppi squassò l’aria e scosse la montagna.

Seguì lo scroscio assordante di decine di tonnellate di roccia frantumata con precisione, che cadeva dall’alto di venti metri, aggiungendo polvere al fumo e frastuono all’eco delle esplosioni.

Quando i fumi dell’esplosione e la polvere si furono diradati, la squarciatura apparve, in un angolo della calotta della caverna, illuminata da riflettori appositamente installati.

I presenti si preparavano già ad applaudire, quando fra la caduta delle ultime pietre risuonò una specie di urlo prolungato, che terminò in un rigurgito lamentoso, ed un rivolo simile ad un liquame giallastro si riversò da una sacca di fango contenuta nella roccia da tempi geologici, come un ascesso purulento. Allora si formò una piccola cascata i cui schizzi maleodoranti imbrattò quelli che si erano già avvicinati dalla tribuna, imprudentemente, per guardare nella nuova apertura e cercarvi il cerchio della luce che entrava seicento metri al di sopra.

Un odore nauseabondo si diffuse immediatamente nell’aria confinata della caverna. I ventilatori, attivati al massimo numero di giri, non valsero a dissiparlo.

A quel punto, tutti i presenti si ritirarono, camminando lentamente verso l’uscita, cupi in volto ed in silenzio, e non ebbe luogo alcun brindisi.

Quella sera, nel refettorio, Bonfanti e Morelli seduti uno di fronte all’altro, sorbivano il minestrone senza parlare, quando all’improvviso il primo mormorò che non sarebbe stato male sacrificare una capra gettandola dall’imboccatura superiore del pozzo, come raccomandavano i suoi minatori locali. E dopo alcune cucchiaiate aggiunse: “e speriamo che basti”.

Morelli fece finta di non avere sentito e si ritirò salutando con un gesto del capo.

Sulla porta incontrò Suarez, che gli annunciò l’arrivo dei tecnici del telefono per il giorno dopo. Qualcuno, dal paese, gli aveva mandato a dire che sarebbero giunti senza ulteriori ritardi, Dio permettendo.

Morelli si rallegrò, ricordando che aveva giusto bisogno di ordinare urgentemente dei pezzi della trasmissione indispensabili per un locomotore dell’Accesso due, la cui rottura stava causando una sensibile perdita di produzione nel fronte di scavo di Bonfanti.

Il giorno dopo i tecnici del telefono non vennero, e Morelli non poté richiedere i ricambi che voleva, ne’ altri materiali di importazione la cui disponibilità in cantiere avrebbe reso la produzione più efficiente.

Bonfanti, seduto sul locomotore smontato nell’officina all’esterno del tunnel, guardava il trenino uscire carico di rocce dopo il brillamento della volata, tirato dall’unico locomotore rimastogli, e pensava con tristezza ai suoi minatori che si sforzavano per recuperare qualche minuto, mentre l’indisponibilità della macchina rotta e ferma in officina comportava la perdita di molte ore al giorno.

Uno dopo l’altro i vagoni vuotavano il loro carico ancora fumante, che si riversava lungo il fianco scosceso della montagna precipitando per centinaia di metri, formando verso il fondo una nuova pietraia instabile.

Le pietre di maggiori dimensioni rotolavano saltando, producendo boati e sgretolandosi all’impatto con rocce più grandi. Il resto scivolava verso il basso come una lenta slavina grigiastra.

Venerdì Morelli mandò un meccanico con una vettura alla città più vicina per cercare dei pezzi di ricambio ed altre cose necessarie al cantiere, ma una frana sulla strada della Valle Toliman lo obbligò a tornare dopo alcune ore. Fu necessario mandare una pala meccanica per rimuovere la frana, e rimandare la missione al lunedì seguente. Intanto l’unico locomotore rimasto a Bonfanti ebbe un problema alla pompa d’iniezione del gasolio, e lo scavo della galleria si fermò completamente durante tutto il sabato, giorno che era stato dichiarato lavorativo nell’illusione di ridurre il ritardo.

Morelli si consolò di queste sventure constatando che almeno erano state gettate le fondazioni per i nuovi uffici, meno male perché la discarica avanzava verso quelli vecchi, minacciando di seppellirli.

Il frastuono delle rocce ribaltate dai camion si ascoltava sempre più forte dai locali degli uffici, e rendeva nervosi i contabili e i disegnatori che chini sulle loro scrivanie consumavano flaconi di inchiostro nell’adempimento del proprio lavoro. Accadeva con frequenza che le conversazioni venissero interrotte dal rumore, ed alcune pietre dalla forma più rotondeggiante si già erano spinte, rotolando, ai piedi dell’edificio.

Morelli non riusciva a spiegarsi perché i suoi predecessori avessero costruito i vecchi uffici su quell’area destinata a discarica, ne’ perché avessero aspettato tanto tempo prima di iniziare la costruzione di quelli nuovi. Sospirò, convinto che sotto la sua direzione le cose avrebbero preso una nuova piega in pochi giorni. Senza contare, pensava fra sé, che la messa in servizio della linea telefonica avrebbe risolto molte cose.

 

Autore: Franco Garelli