SanremoQuando scese dall’Intercity delle 20:32 alla stazione di Sanremo, Piero Dal Sotto sapeva già che la sua amica non sarebbe stata là ad aspettarlo, sulla banchina del binario 1. Glielo aveva annunciato per telefono lei stessa, appena un’ora e mezza prima, quando lui si trovava già a Genova, e stava contando le fermate mancanti per stringerla fra le braccia. Non si incontravano da un mese e la voglia di stare insieme, seppure solo un paio di giorni, era impellente. Si immaginava, pregustandolo, un abbraccio lunghissimo, in mezzo alla gente indifferente, intenta a scendere e salire sul treno.
 

Amore, devo dirti una cosa………. Ho parlato con Marco, gli ho detto di noi. Ora devo restare a Milano, sto traslocando. Non potremo vederci.
Silenzio. Poi, sottovoce:
Forse non potremo vederci più, poi ti spieghero’…….. mi dispiace tanto amore.
Sul momento, come prima reazione, Piero aveva deciso di scendere da quel treno e tornare a casa sua, a Sopracroda, in provincia di Belluno. Gli era subito apparso chiaro che quel viaggio, da giorni programmato ed atteso, aveva perso ogni senso ora che Ornella era svanita nel nulla come un fantasma della malora. All’inizio aveva provato un senso di vuoto così profondo da assomigliare ad un buco nero nella sua anima, capace di inghiottire, annichilandole sul nascere, la delusione, la rabbia e l’amarezza che non riuscivano neppure a prendere corpo nella paralisi dei suoi sentimenti. Poi aveva cambiato idea sul da farsi. Si era detto che tanto valeva arrivare fino a Sanremo, ormai vicina. A tornare indietro ci sarebbe stato tempo, magari domani, dopo qualche ora di riposo nell’appartamento del Tony. Inoltre, un’occhiata all’appartamento era doveroso darla, non si fosse verificata qualche infiltrazione di acqua o qualche furto con scasso. Si sa mai… di questi tempi.
Alla fermata di Alassio, guardando le rotaie del binario adiacente, gli erano venute in mente le parole di una tetra melodia di Claudio Villa, il Reuccio dimenticato della canzone italiana, del quale conservava molti dischi: “… binario, triste e solitario….. Binario, fredde parallele della vita, per me è finita!”. Aveva subito distolto lo sguardo dal binario ed il pensiero dalla canzone, mettendosi ad osservare una coppia che camminava sulla banchina, tenendosi per mano. Lei reggeva un piccolo mazzo di rose. Ad un tratto si era fermata ed aveva dato un bacio fresco e fugace al suo uomo, guardandolo con aria felice. Era tutto suo. Lui l’aveva cinta col braccio ed avevano ripreso a camminare verso la felicita’.
Quando il treno era ripartito, Piero aveva pensato di usare la ritirata del vagone, così una volta arrivato in città sarebbe stato libero di farsi un giro senza la necessità di recarsi subito nell’appartamento, ubicato in Via Padre Semeria, una strada lontana dal centro dove si concentravano complessi residenziali di seconde case abitate per lo più nella bella stagione. L’idea di usare il bagno di un bar l’aveva scartata, all’idea di dover pagare una consumazione. Le pareti della ritirata erano imbrattate con scritte e disegni osceni, e qualcuno aveva lordato il pavimento fuori dalla tazza. Uscendo dallo sgabuzzino maleodorante, nell’azionare maldestramente il chiavistello si era ferito l’indice della mano destra, una goccia di sangue era sgorgata dal dito.
Nel corridoio, un passeggero sui cinquant’anni che trascinava una pesante valigia, gli aveva pestato un piede, bestemmiando e borbottando qualcosa contro gli anziani.
A Sanremo, sbarcato dal treno nella caverna della stazione nuova, si guardò intorno, non fosse che Ornella avesse voluto fargli una sorpresa. Sarebbe stato uno scherzo di cattivo gusto, d’accordo, ma le donne… non si sa mai, chi le capisce quelle là? Son sempre loro che fanno e disfano, che decidono se concedersi o negarsi. Noi uomini siamo come dei buoi con l’anello al naso, loro tirano la catena e ci fanno andare dove vogliono. Cosi’ pensava, scuotendo un po’ la testa. Invece Ornella Gattai non c’era proprio, era con quel Marco, a Milano, e Piero rimase solo sulla banchina dopo che tutti gli altri viaggiatori si furono incamminati verso l’uscita. Anche il treno partì con un ronzio crescente, rintanandosi nella lunga galleria in direzione di Ventimiglia. Si guardo’ intorno: volte di cemento grigio. Un suo ex collega, Corradi, aveva partecipato nell’ ’83 a quel lavoro. Glielo aveva raccontato una sera al club dell’accampamento del cantiere, in India, mentre lavoravano insieme in una centrale idroelettrica sotterranea. Prima di allargare la galleria con l’esplosivo, avevano perforato con una fresa un piccolo tunnel pilota, per conoscere in anticipo le condizioni della roccia che avrebbero attraversato ed anche per ridurre le vibrazioni indotte dai lavori con esplosivo ed evitare danni agli edifici in superficie, le cui fondazioni si trovavano a pochi metri dalla calotta della galleria. Un lavoro mica facile… con la gente che veniva a reclamare per ogni minima crepa nell’intonaco dell’appartamento, che probabilmente, oltretutto, c’era da prima.
Da diversi anni la vecchia ferrovia, che dalla fine dell’Ottocento attraversava la città in tutta la sua lunghezza, era stata ricostruita spostandone il tracciato interamente in galleria, da Arma di Taggia ad Ospedaletti. Da allora, per i viaggiatori, la vista sulla costa ponentina e sui giardini aveva lasciato il posto alla vista sulle pareti di cemento della galleria, mentre gli aspiranti suicidi avrebbero perduto l’opportunità di tutti quei comodi passaggi a livello disseminati alle spalle dei lungomare.
Piero si incamminò. Non aveva portato bagaglio. Si mise le mani in tasca, e sentì le chiavi e la scatoletta con l’anello che aveva progettato di regalarle al momento giusto, nel ristorante, brindando con lo spumante ghiacciato al loro complicato e forse ultimo amore.
I tapis roulant del lungo corridoio sotterraneo che portava all’uscita erano fuori uso, ed i suoi passi risuonavano nella galleria deserta.
Nell’androne della biglietteria, di fronte al bar, un ubriaco chiedeva un euro per comprarsi un biglietto, doveva andare a Porto Maurizio e gli avevano rubato il portafogli, sosteneva, cercando di apparire convincente.
Piero gli diede una moneta ed uscì dalla stazione. Percorrendo il marciapiedi osservo’ il muro esterno dell’edificio: la superficie del cemento armato conservava ancora i fili di ferro delle armature, che sporgevano contorti ed arrugginiti. “Avessimo lavorato in questo modo noialtri, ci avrebbero fatto correre, con tutto che si era nel terzo mondo… Ah, povera Italia!”
Si accese una sigaretta e guardò il cielo stellato. La temperatura, per la stagione, era sorprendentemente mite, cosi’ decise di andare a piedi direttamente in centro, verso il porto vecchio. Non se la sentiva di andare a rintanarsi subito come una bestia ferita nell’appartamento che il Tony gli prestava per le sue brevi puntate, da amico ed ex collega. Avevano lavorato assieme in più di un cantiere, in Sudamerica, una trentina di anni prima, ed erano rimasti buoni amici. In quei cantieri di grandi imprese italiane si facevano dighe e centrali elettriche. Adesso, da pensionati entrambi vedovi, si ritrovavano spesso al bar, a Belluno, a bere “ombre” e ricordare i bei tempi e le avventure vissute in quei paesi tropicali, dove le belle donne non mancavano e non si facevano pregare tanto come le italiane. L’appartamento di Tony risaliva agli anni settanta, di cui conservava il mobilio essenziale e la suddivisione degli spazi di quel tipo di alloggi, che prevedeva un soggiorno con terrazza, una camera matrimoniale, un’altra cameretta, un bagno con vasca ed una cucinotta striminzita e scura, con lampada al neon e terrazzino per stendere i panni. Faceva parte di uno di quei condomini sorti come funghi, quando i milanesi e i torinesi acquistavano alloggi per le vacanze, e Sanremo era ancora in auge, prima che la moda delle vacanze esotiche e decenni di amministrazioni comunali poco attente al bene della città la riducessero a sopravvivere solo grazie alla gloria del passato, al Casinò ed al buon clima, che fortunatamente nessun malaffare avrebbe potuto rovinare.
Piero percorse Corso Garibaldi, guardando distrattamente le vetrine, attraversò Piazza Colombo discendendo verso l’edificio in stile Ventennio delle poste e raggiunse la zona del porto vecchio. Il vento gli scompigliava i capelli grigi. Respirò a pieni polmoni quell’aria che sapeva di iodio, salmastro e nafta.
Proprio in quei paraggi, in un ristorante, aveva conosciuto per caso Ornella, due anni prima. Era una donna minuta, bruna, prossima ai cinquant’anni. Quella sera sedeva ad un tavolo vicino al suo e, chissa’ perche’, era sola.
Il suo viso non era piu’ fresco, ma comunicava simpatia e voglia di vivere, e dallo sguardo traspariva un’aria di complicita’. Portava un vestito bianco e nero, attillato e corto.
Il cuore di Piero, ossia il suo cervello primordiale che in pochi secondi aveva elaborato le rilevazioni sensoriali pervenutegli in seguito all’avvistamento della donna, aveva capito che quella donna poteva divenire importante, e bisognava agire senza indugi.
L’aveva guardata, lei aveva abbozzato un sorriso.
Scusi signora, aspetta qualcuno o è sola anche lei?
No? Allora non le dispiace se ceniamo insieme, così ci facciamo compagnia?
Lei, che si aspettava il solito attaccabottone appiccicoso, era rimasta subito colpita dalla chiarezza e dalla profondita’ del suo sguardo, mentre gli si accomodava di fronte, presentandosi.
Durante tutto il tempo della cena, e poi a passeggio per le vie della citta’, lui l’aveva fatta sentire a suo agio, comportandosi piu’ da adolescente che da cacciatore navigato. Quella sera, salutandosi, si erano dati appuntamento per l’indomani. Avevano scoperto di essere vedovi entrambi e stavano bene insieme. Piero era un bell’uomo, prossimo alla settantina.
Nei pochi giorni seguenti che avevano trascorso insieme, si erano innamorati come due ragazzi, e da allora si erano ritrovati altre volte a Sanremo. Lui arrivava da Belluno, lei da Milano. Tra un incontro e l’altro si scrivevano lettere piene di passione e si parlavano per telefono quasi tutti i giorni. Avevano persino pensato di vivere insieme, il dubbio era se fare base a Milano od a Belluno. Nel frattempo, Sanremo come punto di ritrovo andava benissimo, grazie anche alla disponibilita’ del Tony a prestare l’alloggio.
Una sera, passeggiando tra le banchine di Portosole, Ornella gli aveva parlato di Marco. Lo conosceva da molti anni. Avevano una relazione, che pero’ era entrata in crisi perche’ Marco, che faceva il giornalista, amava il suo lavoro piu’ di lei e la trascurava, dedicandole soltanto ritagli di tempo. Recentemente, Marco si era reso conto che lei gli stava sfuggendo ed aveva fatto di tutto per riavvicinarla. Lei lo amava ancora e non riusciva a lasciarlo. Era giusto che Piero lo sapesse. Ed infatti lo seppe. Pur di non perderla, Piero accetto’ di condividerla con quel giornalista, piu’ giovane di lui. Ormai non poteva fare a meno di Ornella, che fino ad allora, aveva accettato di fare quel doppio gioco. Fino a quando? La telefonata ricevuta in treno treno era stata la risposta. Fino a quel giorno. Evidentemente, pensava Piero, adesso Ornella aveva finito per andare a vivere con Marco, nel suo appartamento a San Donato Milanese.
Si sforzò di scacciare quei pensieri ed i ricordi. Non il passato, ne’ il futuro, importavano: la sua vita stava scorrendo in quel preciso momento del presente ed andava vissuta nel migliore dei modi. Bisognava farsi coraggio. Nella sua lunga vita di cantierista ne aveva passato di cotte e di crude, come un soldato al fronte. Così si disse, quando entrò sicuro di se’ nel locale, che faceva anche da pizzeria, dove avrebbe cenato con Ornella se le cose fossero andate per il verso giusto. Si sedette in un angolo, ed ordinò una pizza col prosciutto crudo ed una bottiglia di Cartizze, il vino della sua regione che aveva in mente di offrirle, per poi tirare fuori l’anello col brillantino che le aveva comprato a Vicenza in occasione di una visita dall’urologo.
“Me la berrò da solo, diamine! Mi renderà il buonumore.”
Il cameriere peruviano disse che quel vino non l’avevano, ma se voleva c’era dell’ottimo Vermentino doc, per soli 17 euro alla bottiglia.
Lo prese, era pur sempre vino…
Ai tavoli intorno i clienti che non erano intenti a cincischiare coi loro telefonini chiacchieravano animatamente, alcuni scherzavano a voce alta. Piero li osservò con attenzione, mentre aspettava la sua pizza. Erano ben vestiti, secondo regole precise, regole che vanno osservate per avere il diritto di presentarsi in società senza essere considerati dei pezzenti. Lui invece non ci faceva caso, in genere si vestiva come gli capitava, come aveva fatto tutta la vita in giro per i cantieri, ma quella mattina si era messo d’impegno per far bella figura con Ornella. Indossava un paio di jeans marron di buona fattura, una camicia a quadri dai colori autunnali, un gilet verde ed una giacca di velluto verde, che aveva comprato in una liquidazione, anni prima, quando c’era ancora Teresa, che insisteva sempre perche’ si comprasse qualcosa di nuovo e buttasse i vestiti logori.
Dei bambini scorazzavano tra i tavoli, rovesciando le sedie e molestando i clienti. Nessuno li richiamava. C’erano alcune coppie di giovani ed anche persone di mezza età. Tutti sembravano spensierati, non volevano sapere della tempesta che si stava formando sulle loro teste, della nazione che ormai aveva imboccato la via della rovina. Il peggio è passato, aveva detto il Cavaliere, e credergli faceva comodo. I camerieri correvano a prendere le ordinazioni e servivano le pizze richieste.
Io voglio la margherita, ma senza le olive….
Io voglio una puttanesca, ma che non sia troppo piccante.
Mi porti il conto per favore, guardi che ho fretta.
Una bambina lo osservava. Mamma, sembra il nonno.
Dopo mangiato, Piero ebbe voglia di uscire al più presto, a respirare di nuovo quell’aria salmastra, e pensò di fare quattro passi per digerire la pizza e smaltire la bottiglia di vino.
Cominciava ad accusare il colpo. Il dolore inizio’ a rompere gli argini, ed erano gli argini di un uomo molto forte. Il cameriere, quando gli porse il conto, si accorse che aveva gli occhi arrossati.
Tutto bene signore? Ha mangiato bene?
Molto bene, ragazzo. Tieni il resto.
Usci’ e si ritrovo’ in Piazza Bresca. Dal sud spirava lo Scirocco, che portava aria calda africana. Dai pontili giungeva ossessivo il concerto metallico delle sartie sbattute dal vento contro agli alberi delle imbarcazioni ormeggiate. L’odore del mare, che adesso gli pareva sapesse anche un po’ di fogna, riattizzo’ per un momento i ricordi nostalgici dei giorni felici.
Piero confrontò quel clima privilegiato con quello di Sopracroda, e si consolo’ apprezzando il fatto di poter passeggiare di notte senza congelarsi, nonostante fosse marzo, respirando a pieni polmoni quell’aria salubre. A casa aveva lasciato il riscaldamento acceso, per evitare di trovare le tubazioni congelate al suo ritorno. Da anni viveva da solo, da quando la moglie Teresina era morta ed il figlio Bruno era andato a vivere a Buenos Aires. Avevano avuto anche un altro figlio, che era morto a 22 anni in un incidente stradale. Bruno si faceva vivo raramente, per lo più quando aveva bisogno di soldi. E lui non poteva dargliene mica tanti, perché con la sua pensione poteva a stento sopravvivere e mantenere quella casa grande e ormai vuota, che quando l’avevano costruita gli aveva prosciugato tutti i risparmi, obbligandolo persino ad indebitarsi. Era stata la buonanima della Teresina a volerla così grande, come quella che si erano fatti i Trevisan, a Conegliano. Se l’era goduta poco, poveretta, era andata in cielo troppo presto.
Di recente, prevedendo le difficolta’ di una vecchiaia da affrontare da solo, Piero aveva provato a vendere la casa per comprarsi un piccolo appartamento in città, allora aveva scoperto che l’immobile non era commerciabile a causa della posizione infelicemente ombreggiata ed umida, come gli aveva spiegato l’agente immobiliare al quale aveva chiesto una stima. In quei giorni infatti la casa vedeva il sole esclusivamente dalle undici alle due. Le stanze non abitate sapevano di muffa. Quando l’aveva costruita non aveva pensato all’esposizione, semplicemente l’aveva fatta sul terreno che suo suocero aveva dato in dote alla Teresina. Adesso vi abitava coi suoi fantasmi, al freddo e nella penombra, circondato dagli oggetti che aveva portato da ogni continente, come quell’arco con le frecce avvelenate che aveva barattato con un coltellino svizzero, nel ’67, dai Masai, in Tanzania, e che teneva appeso in sala sopra al caminetto, o quella pelle di pitone esibita nella tavernetta, che lui stesso aveva cacciato e disseccato in Ghana nel ’72.
Eh, a potersi portare qua quella casa, magari metterla su quel poggio lassù che vede il sole e il mare dall’alba al tramonto…
Si incamminò verso oriente, lungo la nuova pista ciclabile che a quell’ora era tranquilla e quasi deserta, frequentata per lo piu’ da quelli che portavano i cani a fare i bisogni, che poi raccattavano usando guanti e palette.
La canzone del binario gli tornò alla mente, e da quel momento cominciò a ripetersi all’infinito.
Passò il campo sportivo, presso i Tre Ponti, poi raggiunse Capo Verde. Qui si sedette su una panchina a riposare ed a guardare il mare, illuminato ad intermittenza dal fascio luminoso del faro soprastante.
Ad Ovest si distingueva chiaramente Capo Nero, ed oltre, verso Montecarlo e Nizza, affiorava la luminescenza di Cap Martin e Cap Ferrat.
Dopo circa venti minuti Piero si accorse di avere freddo e si alzo’ per tornare sui suoi passi, pur non avendone voglia.
Passando di fronte al campo sportivo venne richiamato da una lavoratrice bionda in calzamaglia. Si avvicinò per vederla meglio, incuriosito dal timbro della voce.
Ciao bello, vuoi che andiamo a divertirci un po’?
Ma tu sei una donna vera o sei di quelle che lo diventano dopo?
Sono travestito, ti piaccio? Mi chiamo Carolina. E tu?
Piero. Carolina, mi hai ingannato la vista, se non era per la voce e perché me lo hai detto, avrei giurato che eri donna, e di quelle belle. Comunque, non verrò con te, no. Ma di dove sei?
Sono colombiana. Se vuoi ti presento un’amica, lei si che è nata donna.
Si avvicinò l’amica, una mulatta con i capelli stirati. Fece un giro su sé stessa, aprendo la pelliccia bianca, per esibire tutte le sue curve. La pelle ambrata risaltava sul fondo chiaro, irresistibile, vellutata.
Ciao amore, ti piaccio? Io sono di Santo Domingo. Mi chiamo Amarilis.
Piero ricordò quando proprio a Santo Domingo, per fare festa coi colleghi del cantiere, molti anni prima avevano riservato per tutta una notte e solo per loro uno dei migliori postriboli della città. Fu davvero una bella festa, si erano divertite anche le ragazze del locale, con le quali piu’ di uno aveva poi stretto amicizia. Per lo piu’ erano brave ragazze, che nel fare il loro lavoro ci mettevano passione, un po’ come quelli del cantiere. Non come oggi, pensava, che si fa tutto svogliatamente solo per soldi. Senza amore per i dettagli.
Se è Carolina che ti piace, ma non te la senti di rompere il ghiaccio con lei, per via della differenza, vi posso accompagnare io. Ce li hai trecento euro amore? Telefono ad un amico che ci viene a prendere con la macchina e ci porta in un appartamento pulito e riservato. La macchina ti costa solo cinquanta euro.
Piero le rispose nella loro lingua, che nonostante gli anni trascorsi non aveva dimenticato: No grazie, siete bellissime e in un altro momento potrei anche farlo, ma non adesso, non cosi’. No, no, per l’amor del cielo…
E dai, vecchio scemo, andiamo che sei simpatico, stasera non ci sono tanti clienti, ti facciamo anche lo sconto! Se adesso non hai i soldi passiamo per il bancomat, ce l’avrai la carta almeno!
No belle, non sono più per questo genere di affari. Sono vecchio ormai. Fate le brave, che domani vi porto il caffè caldo con il thermo. Ci metto dentro anche un po’ di grappa, così vi mantenete calde e allegre. Buonanotte.
Amarilis si ritrasse senza rispondere, chiudendo la pelliccia, con aria di chi non ha tempo da perdere, invece Carolina lo salutò con la mano ed un sorriso, sincero e gratuito.
Se ci ripensi, sai dove trovarci. Ti amo.
Si incamminò di nuovo verso ponente. Presso Villa Nobel un bastardino di mezza taglia gli si avvicinò circospetto e timoroso, poi cominciò a seguirlo. Piero gli rivolse la parola, il cane si fermò a guardarlo, cercando di capire cosa dicesse l’uomo. Intese che il suo parlare non celava minacce e continuò ad andargli dietro, speranzoso. Ogni tanto rimaneva indietro, annusando con molto interesse qualche spigolo, che poi innaffiava frettolosamente, dopodiche’ recuperava la distanza perduta correndo dietro all’umano.
Puoi seguirmi fino a casa, se vuoi. Domani ti prenderò un osso con della carne attaccata. Come ti chiami?
Gli frugò il collo.
Il cane aveva un collare, ma non c’era nessuna targhetta.
Ti chiamerò Fulmine, ti piace? Si, Fulmine, come il bastardino che avevo da bambino. Se lo mangiò la volpe che era ancora cucciolo. Di notte usci’ dal bosco e se lo prese. Rimasero solo delle gocce di sangue nel cortile. Fulmine bis ascolto’ attentamente, ma non rimase particolarmente impressionato da quel racconto.
Nei pressi del tribunale rincorsero insieme un gatto grigio, che si ritirò dietro all’inferriata di un giardino, con la schiena arcuata, pronto a graffiare il naso del cane se si fosse avvicinato alle sbarre. La partecipazione dell’uomo a quell’episodio di caccia rafforzò il legame tra i due amici. Adesso Piero aveva decisamente assunto il ruolo di capobranco e Fulmine ne era contento. Glielo dimostrava saltandogli al fianco cercando di leccargli le mani di tanto in tanto.
Dopo meno di un chilometro, giunsero di nuovo nella zona del porto. Piero avrebbe potuto continuare verso ovest, passando per la Passeggiata Imperatrice e raggiungendo Via Padre Semeria, ma non aveva nessuna voglia di ritrovarsi da solo nell’appartamento, a passare la notte rigirandosi nel letto come un pollo allo spiedo. Allora imboccò il molo vecchio e lo percorse fino al fondo, dove un faro rosso segnalava l’imboccatura ai naviganti. Tornò alcuni passi verso la città, cercando un passaggio per raggiungere la scogliera, sul lato del mare aperto, finchè trovò una vecchia scaletta a pioli di ferro usata dai pescatori dilettanti, quelli che per pescare usano la canna e ormai non prendono quasi niente, ma non gli importa perche’ all’aria aperta, soli coi propri pensieri, stanno bene lo stesso, lontani dalle mogli, dai figli grandi e dalle suocere. Piero discese la scala con precauzione, afferrandosi ai pioli di ferro arrugginito, mentre Fulmine lo guardava dall’alto del muro di cemento, piagnucolando preoccupato di non poter seguire quel padrone appena trovato. Nei dintorni non c’era nessuno.
Da un grande panfilo ormeggiato nel porto nuovo giungevano il vocio e le risate di una festa.
Una nave da crociera passava al largo, illuminata come un albero di natale.
Il vento aveva un po’ mollato, una pace apparente regnava sulla città dei fiori, sovrastata dalla sagoma scura del Monte Bignone. Piero si sedette su uno scoglio e con calma iniziò a slacciarsi le scarpe. Sotto di lui l’acqua nera e fredda sciacquava gli scogli, indifferente.

 

Autore: Franco Garelli