Penelope cerca di seguire l’incedere baldanzoso della sua Amica, che, passo dopo passo,con un gioco ammirevole di movenze e sbirciate ad effetto, procede radiosa, talmente convinta di sé da catalizzare l’attenzione dei passanti sul palcoscenico della passeggiata. Penelope invece cammina un po’ schiva, la gente in fondo la annoia, le facce degli altri sono soltanto specchi senza riflesso appannati da una diversità fastidiosa. Lei lo sa e loro pure, gli sguardi si incontrano ma si scartano subito, scivolando altrove in un batter d’occhio. Arrivate alla zona del mercatino l’Amica adocchia un vecchio binocolo e si piazza davanti alla bancarella, però il prezzo è alquanto spropositato, così la donna inizia una contrattazione metodica che non lascia per niente presagire tempi ragionevoli; per un po’ Penelope, bilanciandosi sui due piedi, se ne sta lì a sorbirsi gli svolazzi verbali della Bella, tutta intenta a mettere a frutto la sua proclamata abilità nel fiutare gli affari. Poi, spazientita, riesce ad interrompere per un attimo il negoziato e ad avvisare che si allontana, giusto quel tanto che basta per non dover ascoltare. Individuata una minuscola specie di panchina improvvisata, si accontenta di seguire la scenetta con gli occhi, mentre il pensiero è libero di correre altrove, creando collegamenti inusitati, che apparentemente nulla hanno a che fare con il luogo in cui si trova, imprigionato a vivere la realtà del momento. Così, il disagio che Penelope talvolta avverte nella frequentazione dell’Amica le fa tornare alla mente un episodio curioso accaduto qualche mese prima, quando doveva recarsi a compiere una visita di condoglianze, vari mesi dopo la scomparsa del padre di un’amica di gioventù; insieme riescono finalmente a concordare la mattinata, l’orario. Poi stranamente Penelope scambia l’orario di partenza del treno con quello di arrivo, col bel risultato che l’incontro si risolve in un arrabattarsi affannoso ed affannato alla rincorsa del tempo, mentre l’amica perplessa la guarda un filino risentita e lei si ritrova a dibattersi in miliardi di giustificazioni e di scuse, talmente tante da aumentare l’imbarazzo reciproco. L’Amica continua a circuire con smorfie convincenti il venditore, che comincia chiaramente a tentennare. Visibilmente soddisfatta si gira a metà in direzione di Penelope e le fa ciao con la manina, la donna risponde al gesto e la compravendita fortunatamente prosegue. La grossa signora seduta accanto a Penelope si alza pigra ed il posto viene subito occupato da una vecchina magra magra, lunga lunga, vestita di scuro, che appoggia a terra rinserrandola fra i piedi una borsa più pesante di lei, si siede con cautela ed infine si volta meccanicamente a guardare la vicina; si sorridono, poi l’anziana signora fissa composta il vuoto innanzi a sé, mentre Penelope si chiede a chi mai somigli tanto quel viso in cui per un breve momento si è specchiata, giù giù dentro i piccoli ed espressivi occhi appena velati da quella patina caratteristica di chi gli ottanta li ha superati da un pezzo. Da chissà dove ritorna nitido alla mente il viso della zia Marina, l’amatissima tata del padre, che lo aveva accudito facendo le veci della madre lontana. E che egli, mentre gli brillavano gli occhi, era solito ricordare mentre favoleggiava di una vasta cucina fumosa con la grande famiglia seduta intorno ad un tavolo enorme, al cui centro troneggiava l’attesissima polenta distesa che i bambini attaccavano ingordi, capaci di tramutare la necessità dei tempi di guerra in una ridente occasione di festa. Purtroppo l’Amica ha concluso l’affare e sventolando il pacchetto ben confezionato si dirige decisa verso la panchina; Penelope si alza controvoglia e si affretta a congratularsi per l’acquisto, ed intanto che si allontana ascoltando le chiacchiere della compagna, riesce a sogguardare per un’ultima volta quella vecchina così simile alla prozia dei suoi ricordi, con lo stesso viso limpido e lo stesso sorriso fuori dal tempo. L’Amica è ormai tutta presa dalla foga di comprare, si ferma ad ogni bancarella frugando con gli occhi la merce esposta alla ricerca della grande occasione, e intanto sollecita Penelope ad un maggior coinvolgimento. Le due donne si muovono con lunghe e interminabili soste finchè approdano davanti ad una piccola bacheca ricolma di cavatappi di ogni tipo. La Bella inizia subito a sfogliare il solito repertorio di moine per indurre il proprietarioa dimezzare il prezzo. Questa volta adotta il tono supplichevole: deve fare un regalino al suo papà, ma purtroppo ha stupidamente speso quasi tutto quel che aveva, però lei ci tiene talmente tanto a portargli quell’oggettino delizioso che spicca fra gli altri…si vede che è un pezzo assolutamente raffinato, anche se probabilmente non ci si riuscirebbe a stappare neanche una bottiglia di profumo… in fondo a lui non costa niente decidere di farle uno sconto per renderla contenta e compiere un’opera buona…è sicurissima che il papà sarebbe felice…! Il Tizio la guarda con gelidi occhi chiari piantati in mezzo ad un’autentica faccia da schiaffi: a sentire la donna parlare in quel modo svenevole monta vistosamente sempre più in gloria, Penelope non ce la fa più a sopportare sia quel tronfio che la sua Amica, quindi cerca di indurla a sveltirsi, al che il Proprietario, inviperito, scocciato di perdere una Preda che sbatacchia così bene gli occhioni innocenti, redarguisce aspro l’importuna, intimandole di farsi i fatti propri. E Penelope pensa che quel tipo ha proprio ragione: la diversità è un bagaglio scomodo da portare, gli sguardi scartati sono spesso esperienze perdute, il treno sbagliato è un campanello d’allarme, la polenta distesa si riduce solamente ad una fuga dalla realtà, l’Amica melliflua è una piccola saggia. Mentre le donne abituate da sempre a far le Camalle di pesi altrui, nel gran porto della vita sono poveri esseri destinati ad un sicuro naufragio. Nella bancarella vicina c’è una distesa di specchi, di tutte le qualità e di tutte le misure. Penelope lascia l’Amica ai suoi cavatappi e si sposta incuriosita a guardare la luce riflessa imprigionata dentro le superfici luccicanti, qua e là sciupate dal tempo, con buffe cornici ricciolute e ingiallite, di un oro color polenta. Alcuni specchi, con pretese d’antiquariato per gli allocchi, sono costellati di minuscoli puntini nerastri, che li rendono completamente inservibili, soltanto pateticamente decorativi. D’istinto Penelope si ritrova a pensare che tanto varrebbe appendere al muro un semplice quadretto di un autore sconosciuto, perfino senza cornice, ma con dentro qualcosa che fosse piacevole da vedere, da capire, da interpretare. Poi ripensa a quel che ha pensato, scrolla leggermente le spalle e si sorride da dentro un piccolo specchio ovale da toilette meno rovinato degli altri, chiuso dentro una modesta cornicina quasi liscia: senza contrattare lo acquista e se lo tiene così, scartato, impugnando delicatamente il manico consunto dall’uso. Tranquilla, seguita dall’Amica un pochino contrariata, prende a camminare fra la gente con passo sicuro, ogni tanto si guarda allo specchio, ed ogni volta ride, sommessa. Molti si girano a guardarla, interdetti, stupiti, alcuni sorridono, amichevoli, quasi complici: Penelope si diverte e risponde ai sorrisi, proseguendo nel nuovo gioco, che si allarga, leggero. Invece l’Amica, carica di anonime paccottiglie e sempre più imbarazzata, comincia a stizzirsi perché adesso nessuno la guarda più.
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