Il mio nome è Ambra, vivo una vita normale, che si svolge fra il lavoro, la casa e la famiglia. Ho appositamente indicato casa e famiglia per ultime. Infatti, prima di tutto viene il lavoro; il problema di un lavoro che amo ma mi stanca a causa degli altri, del loro egoismo. Smisurato. Qualche volta non ne posso più, manderei tutti al diavolo. Per tutti, alludo alle clienti. Le donne, quando ci si mettono, sono clienti insopportabili, oserei dire feroci. Io lavoro in un negozio di proprietà, insieme a mia sorella e a mio padre. Mi trovo bene con tutt’e due, come loro con me. Ci legano l’affetto, la maniera di concepire la vita, ed il comune interesse a che il lavoro proceda bene; dati i tempi difficili, a maggiore ragione, coi clienti è meglio saperci fare. Io ci so fare, e non solo per calcolo, mi comporto così per natura. Secondo il parere comune sono una persona calma e disponibile; quindi, nel contatto col pubblico, sarei avvantaggiata, o almeno nei primi tempi lo ero. Il negozio è di articoli sanitari in generale, e di calzature ortopediche; la gente che viene da noi ha molti problemi, soprattutto di deambulazione. Molte persone sono reduci da interventi chirurgici, ed i piedi, si sa, sono una parte importante del corpo: quando la postura è sbagliata bisogna procedere con i plantari ed adottare le calzature adatte. Il mio lavoro consiste nel proporle e nel venderle; la persona interessata si accomoda nella parte apposita del negozio, io prendo atto della questione specifica, dei desiderata, faccio provare la merce in negozio, scartabello i cataloghi, consiglio il cliente e quasi sempre riesco ad accontentarlo, anche nel prezzo. Se il cliente preferisce abbinare un colore ad un certo tipo di calzatura realizzata in tinta diversa, telefono gentilmente, diligentemente, assiduamente ai fornitori, e raggiungo lo scopo. Ho usato i tre avverbi appunto per puntualizzare come mi applico al mio lavoro, anche troppo. A parte i giorni festivi e le ferie, poche, in pratica vivo in negozio, al punto da trascurare perfino mia figlia, che attraversa un’età delicata: non più bambina ma nemmeno ragazza compiuta. Per fortuna suo padre svolge un lavoro che gli lascia più tempo libero di quanto sia il mio; la segue, la porta a cinema, la fa parlare…insomma mio marito, suo padre, è un tesoro e loro due costituiscono la mia famiglia perfetta, il mio punto di approdo ogni sera. La sera, quando mi reco a casa, ascolto parecchio ma parlo poco: come ho già detto, sono stanca dopo tutte le ore trascorse a parlare con i clienti. Soprattutto con quelle clienti che scambiano il negozio ed il mio lavoro per lo studio di uno psicanalista, pretendendo che io mi interessi ai loro problemi relazionali, stia in piedi vicino a loro mentre provano le calzature, snocciolando considerazioni infinite sul loro passato, sui loro ricordi, sulle troppe insoddisfazioni. Io devo starmene lì, interloquire ogni tanto con un ‘ma certo’, ‘come la capisco’, ‘quant’è sfortunata’, senza mettere il becco, senza poter instaurare un tentativo di dialogo. Vengo trattata come un robot, una cosa munita di risposta incorporata a seconda delle scansioni gradite da chi sta parlando. Ogni tanto, quando si presentano i rari momenti di calma, negli orari vicini ai pasti, se mia sorella e mio padre sono ambedue presenti in negozio, mi concedo una sosta. Vado nel retrobottega, prendo la bicicletta, esco dal cortile interno al caseggiato e me ne fuggo al lago. Impiego cinque minuti a discendere e dieci al ritorno in salita, quindi, calcolando un’oretta abbondante, riesco quasi sempre ad arrivare fino all’isolino Virginia, nel tratto del lago che io preferisco. Il lago di Varese è dotato di una ciclabile di tutto rispetto, 25 km. circa. Dico 25 km. circa per significare che mi sembrano tanti, e lo dico come persona comune, non da azienda pro-loco. Sempre da persona comune, che ha la grande fortuna di vivere nei pressi di un lago, aggiungo che la ciclabile si snoda per lo più in piano, attraversa zone boschive, e costeggia il lago di Varese in più tratti; il ‘mio’ tratto è uno dei più tranquilli e rilassanti, almeno per me. La superstrada è lontana ed il rumore delle macchine giunge attutito. Il verde è fitto, vario. Lungo la riva i salici sono meno maestosi di quanto non siano alla località denominata Schiranna, ma mi va bene così. Inoltre basta salire sul battellino e approdare all’isolino Virginia: là i salici sono numerosi e stupendi, insieme ad una meraviglia di vegetazione lacustre. L’isolino, a parte i reperti archeologici ed il relativo Museo, è dotato al suo interno di minuscoli stagni ricoperti da ninfee gigantesche. Sto usando il linguaggio che mi sgorga dal cuore all’impatto con l’acqua, il verde, i colori; mi sento rinascere vicina al senso di pace che mi deriva quando mi trovo vicina alla massa dell’acqua del lago, il ‘mio’ lago. Quando dispongo di un’oretta abbondante, avviso il traghettatore e riesco a recarmi sull’isolino anche solo per cinque minuti; mi sembra di entrare in un mondo fatato, fuori dal tempo. In quel luogo io riesco davvero ad astrarmi da tutto, mi rigenero, pronta a subire di nuovo le clienti Vampire che si avvicendano dentro al negozio. Di recente però, proprio nel ‘mio’ tratto di lago, ho incontrato una presenza nociva. Parecchio nociva, almeno per me. Lì per lì mi sembrava impossibile, ma era lei, la Vampira più feroce di tutte. Procedendo con ordine, una mattina in cui ero fuggita per la mia oretta di pausa, pedalavo senza pensare a niente. Sapevo di dovere rientrare in orario chiusura, cioè alle dodici e trenta. Che poi, a dire il vero, noi non stiamo nemmeno tanto a badare al minuto: se occorre, ci fermiamo anche fino alle tredici, in modo che tutto sia a posto per ricominciare alle quindici. In genere, mio padre si assenta per primo, a turno ci fermiamo io o mia sorella. La cliente Vampira era sovrappeso, e tutte le volte insisteva su diete e quant’altro, sfondandomi i timpani. Capiva che il peso eccessivo influiva sulla deambulazione, quindi ogni tanto provava a mettersi a dieta. Mi aveva anche detto che le palestre le venivano a noia, il nuoto altrettanto; forse avrebbe provato la bicicletta. Io avevo creduto ad una cyclette, all’interno delle mura domestiche. Invece no! La Vampira, che mi succhiava energie tutti i giorni, era davanti a me, in bicicletta. Era lei! Le sto dietro, riconosco le ultime scarpe che le ho venduto. Mi basta osservare il tallone, anche la suola ogni volta che un piede accompagna il pedale. La marca compare visibile all’altezza del metatarso; sono scarpe costose, gliele ho fatte arrivare appositamente e le ho dovute cambiare tre volte. Alla Vampira non piaceva il colore, che lei trovava ogni volta diverso da quello in catalogo. So che era riuscita a questionare anche col medico da cui si era recata presentando fattura per potere scalare il costo delle calzature nella denuncia del reddito. Il medico si era complimentato, stupito per l’avanzamento raggiunto dai calzaturieri in campo ortopedico. La donna aveva obiettato. “Porcherie, tutte gran porcherie”. “Allora perché le ha acquistate?”. “ Sta scherzando? Non ci si rivolge così ad un malato… i medici di oggi sono incompetenti e indisponenti…!”. Detto ciò, la Vampira era uscita dall’ambulatorio sbattendo la porta; almeno così mi aveva riferito lei stessa, e ci credo. Con me, era tal quale. “…Signora, non si preoccupi, le faccio un bello sconto”. “…Che sia bello lo dice lei, che ci guadagna lo stesso…eh, voi commercianti… mai fidarsi… un attore è meno bravo di voi…”. Quella volta, mentre lei chiacchierando saltava di palo in frasca, coi vari rumori in sottofondo, avevo frainteso le parole ‘ un attore’ per ‘una torre’, e, non capendo il riferimento, le avevo chiesto “Quale torre?”. Mi pare ancora di udire la risata malevola, il consiglio di mettere l’apparecchio acustico, espresso con un timbro di voce chioccio e melenso, insopportabile. Ora la donna è qui, davanti a me. La sorpasso, e per essere del tutto sicura, sbircio nello specchietto retrovisore che ho fatto applicare alla bici; completa di sellino professionale e di un campanello talmente sonoro da far spostare un esercito. La bici della Vampira invece è uno scasso, brutta, vecchia e sverniciata, con le gomme usurate. Lei, proprio lei! Forse la Vampira, pedalando a quell’ora vicina al pasto, ritiene di abbinare dieta e ginnastica; secondo la logica del ‘paghi due prendi tre’. Il tempo che mi ritrovo a disposizione è limitato, quindi continuo a pedalare veloce in direzione dell’isolino, giunta all’imbarcadero giro la bici e mi rassegno al ritorno. Avvolgo con cura la testa e parte del volto nella sciarpina che porto sempre in tasca con me: così, se la incrocio, la Vampira non può riconoscermi. Difatti, la incrocio all’altezza della casetta dello spaventapasseri. Una casetta graziosa e piccina, come il giardino in discesa. La zona di prato in piano confinante con la ciclabile è munita di spaventapasseri. Lei è lì ferma a guardarselo, si intuisce che vorrebbe parlargli come se fosse un essere umano, magari vorrebbe assediarlo come è solita fare con me. Rallento l’andatura, ed anche a relativa distanza, di profilo riesco a vederle le labbra agitarsi. Rallento ancora fino a fermarmi senza fare rumore. Così vicina posso udire distintamente ogni parola. La vampira si rivolge allo spaventapasseri in un monologo assurdo, zeppo di lamentele e di accuse, come suo solito. “Eh caro mio, te ne stai lì bello tranquillo a far niente. Tu non hai obblighi verso nessuno, sei vestito elegante come un damerino. Mah. Sembri pronto per una bella sdrumata!… Eh, sì, caro mio, e non farmi l’ingenuo: sdrumata è scopata. Sapessi il tempo che non pratico più! Ormai, anche se io lo volessi, non me la chiede nessuno. Sono vecchia. I vecchietti bavosi guardano le ragazzine, usa così. E’ sempre usato così, ma da che c’è il Viagra! E le ragazzine la danno via anche solo per una ricarica da pochi euro al telefonino, lo sanno tutti. Quelle di qui, le più grandi, lo fanno per soldi. Come le straniere. Invece noi donne anzianotte del posto per scopare dovremmo trovare e pagare qualche giovinastro, che avrebbe anche schifo. Ma ti pare? Ah. Già che ci sono vorrei farti una confidenza. Devi sapere che io mi reco sempre ad un negozio di ortopedia a Gavirate; lì ci sono due squinzie, due gattemorte sui quaranta abbondanti, che a mio parere sono due baldraccone. Tutte le volte che si rivolgono a un uomo gli sbirciano il pacco e con la scusa di fargli provare le scarpe, di prendere le impronte per i plantari, ci si strofinano contro. Ecco, quella è la categoria di donne che io detesto. Una delle due si chiama Ambra; per conto mio è assatanata. Quando le parlo, ogni tanto la vedo assente, ma appena entra un maschio abbastanza decente!…”. Lo spaventapasseri è inchiodato al palo, non può reagire ed ascolta, passivo. Io, alle spalle della Vampira, ascolto altrettanto passiva, allibita. Mai e poi mai avrei osato pensare che la Vampira, oltre agli altri, avesse anche problemi del genere; credevo che almeno avesse raggiunto la cosiddetta pace dei sensi. Invece no. Oppure, come suo solito, era un’altra maniera per poter screditare in qualsiasi modo chiunque le capitasse a tiro; così, per il puro gusto di farlo. Mentre ascolto, osservo che lo spaventapasseri tiene nella mano sinistra uno strumento orrido, almeno per me, che detesto i coltelli; uno strumento di morte per l’erba, come la mannaia lo è per le bestie. Un falcetto, bello grosso. Bello lucente. Quel falcetto assorbe tutta la mia attenzione, mi ci immedesimo. Uno spaventapasseri innocuo ed un falcetto spropositato, per niente arrugginito, lustro splendente. Lo sguardo mi corre tutt’intorno sul prato su cui vigila lo spaventapasseri. Curatissimo, dotato di un ruscelletto con tanto di ruota e di ochette di legno sui lati; i narcisi punteggiano il verde e il tutto è da fiaba. Ho già detto che il prato risale a montagnola fino alla villetta graziosa e piccina, con le finestre munite di tendine tirate. Guardando meglio, mi sembra che dietro una finestra la tendina si muova; magari no. Non riesco a non ripensare agli apprezzamenti che la Vampira si è permessa di esprimere sul conto mio, di mia sorella. Che bastarda! Poi… tutto succede con estrema rapidità; metto il fermo alla bici, mi accosto alla rete, mi allungo, e con la mano protesa afferro il falcetto. Ovvio che la Vampira si accorge di me, si volta e mi guarda, la sciarpina mi si è allentata e la donna mi riconosce. “Lei?? Ambra, cosa ci fa qui invece di stare al negozio? Ma com’è pallida, direi cadaverica; niente di nuovo, da che la conosco è sempre così !”. Il suo tono non mi piace per niente. Non rispondo, è come se fossi ipnotizzata dal bagliore assoluto che si sprigiona dalla lama incurvata, tanto che muovo in tondo la lama per imprigionare tutta la luce del mezzogiorno. La Vampira si irrita, mi intima di restituire il falcetto al suo proprietario, anzi, me lo vorrebbe togliere di mano. Io allora le rido in faccia. Questa volta non posso tacere. Subire, ubbidire e tacere. “Tu sei una schifosa budriona. Intendo dire una sfruttatrice perversa. Il gioco ora lo conduco io. Non mi guardare in quel modo, sei cadaverica peggio di me! Giochiamo un pochino; vuoi ballare?”. Ed inizio a ballare insieme al falcetto; una danza liberatoria, con lo strumento che luccica come un quarto di luna nel cielo terso, vibrante e impaziente. Mi guardo d’attorno. Nessuno. Alzo lo sguardo verso le finestre della villetta; le tendine rimangono immobili. Non capisco cosa mi stia succedendo: mi sento euforica, di un’euforia mai provata prima. La Vampira comincia a inveire di brutto, io per risposta le agito il falcetto davanti alla faccia. Bisogna dire che lei se la cerca: non arretra, non mi considera. La Vampira indossa una giacca rosso corallo, le guance sono arrossate dall’ira e le mani irrorate di rosso violaceo; quella stupida si ostina rabbiosa a cercare di afferrare il falcetto, col bel risultato di ferirsi le mani. Allora, per un momento, la Vampira si placa; si contempla le mani ferite, le ritrae, le appoggia al seno, ed il colore del sangue che gronda sparisce nel rosso corallo. Subito dopo la Vampira urla, mi guarda furiosa, continua a inveire ma con voce più incerta, quasi tremante. Per una volta!! Non riesco a fermarmi, mi sto divertendo, sul serio. Col falcetto le sfioro il davanti del corpo, all’altezza del seno, della vita e del ventre. Se volessi, dovrei solo scegliere dove affondare. Non lo farei, mai. Vorrei soltanto che lei la piantasse. Si mettesse composta. Mi chiedesse di aiutarla a fasciarsi le mani… Poi …è successo. La Vampira ha recuperato energia, si è buttata lei stessa contro il falcetto che avevo proteso in avanti per tenerla lontana; con la destra tenevo l’impugnatura ben salda, con la sinistra sorreggevo la lama. La parte convessa era rivolta verso di lei. Invece di valutare, riflettere, la Vampira si butta; col bel risultato di sgozzarsi, da sola. Io balzo all’indietro, il fiotto di sangue che sgorga non fa in tempo a colpirmi, a sporcarmi; immobile, la guardo cadere, stramazzare per terra. Finalmente sta zitta!! Mi sento calmissima e mi osservo nuovamente d’attorno. Ancora nessuno. Le tendine là in cima rimangono immobili. La Vampira giace giù a terra, la giacca rosso corallo le assorbe il sangue che cola con un effetto molto pulito, ineccepibile. Non mi avvicino, la Vampira è già morta senz’altro. Mi muovo, per prima cosa immergo il falcetto nell’acqua del lago, lo sciacquo con cura, lo asciugo con la sciarpina, mi allungo di nuovo e riesco a riposizionarlo in mano allo spaventapasseri. Gliela stringo per bene, lo spaventapasseri ha di nuovo in pugno il falcetto; a guardarlo, è identico a prima. La bici della Vampira era appoggiata alla rete e senza volere, nel movimento, questa volta la urto; la bicicletta cade con grande fracasso, io mi precipito sulla mia bici e mi allontano pedalando con foga. Sulla ciclabile non incontro nessuno; man mano che mi avvicino al centro abitato rallento, poi la salita verso il paese mi obbliga ad un’andatura normale. A conti fatti, il tutto mi ha rubato ben poco tempo: quando arrivo al negozio mia sorella mi chiede “Già qui? Allora io vado, oggi ho fretta, puoi riordinarmi la roba sul banco?…Ci vediamo più tardi…”. Rimango da sola, riordino il minimo e mi siedo esattamente dove sedeva di solito la Vampira, ora defunta. Mi sento sfinita, lo stomaco chiuso. Mia figlia proprio quel giorno è in gita scolastica, mio marito ritorna la sera e decido di fermarmi in negozio: se mai, nel retrobottega c’è sempre qualcosa di scorta, ma non credo di averne bisogno. Ho il cervello svuotato e mi sento piombare addosso un gran sonno, innaturale. Mi devo riprendere, mi alzo, ripongo la giacca, frugo in tasca per controllare se ho qualche chiamata sul cellulare… niente. Introduco la mano nell’altra, devo far asciugare la sciarpina…cazzo di Buddha! La sciarpina non c’è!! Devo averla dimenticata vicino alla rete, dopo avere asciugato il falcetto. Ecco! Ti pareva! Che stupida! Non sono pentita di quello che ho fatto, nemmeno di quel che è successo per colpa della Vampira; a causa della sua smisurata presupponenza. Mi secca solo l’idea di finire in galera per anni; si sa bene come funziona. Sulla sciarpina non ci sono nome e cognome del proprietario, questo è vero, ma… mi rassegno. Se è destino che mi trovino, amen! Li aspetto. Mi dispiace soprattutto per i miei familiari, per la mia bimba: la madre assassina! La indicheranno col dito; magari, dopo avermi ascoltato, gli inquisitori mi prenderanno per matta. Mi richiuderanno in quei luoghi tremendi e sarà ancora peggio, per me, per la bimba e per loro. Devo farmi coraggio, devo fare qualcosa. Non posso lasciarmi andare così, non me lo merito. Ho a disposizione circa due ore prima che il negozio riapra, non devo restare impalata, ma tornare sul posto…Vado nel retrobottega, bevo lentamente dell’acqua, la sorseggio pensando che l’acqua è la vita, come lo è il lago, che io sono viva e non sono né assassina né matta. Soltanto, non ne ho davvero potuto più. Per una volta! Mi dispiace, però so anche che devo aiutarmi: ‘Aiutati che il ciel ti aiuta’, si dice. Già, il cielo. Chissà là cosa si pensa di me! Al cielo chiedo perdono per la mia parte, ma anche aiuto a difendermi. Da lassù ti leggono dentro, lo sanno che la maligna era lei; ho senz’altro sbagliato, ma non fino al punto da finire in galera, o al manicomio. Giudichino loro, mi aiutino o mi condannino. Loro, però. Dal canto mio, io, Ambra, prometto che, se me la cavo, sarò ancora più disponibile con le clienti, di una pazienza infinita. Quella sarà la mia maniera per espiare, a vita. Ecco! Mi sembra abbastanza! Riconfortata, esco, chiudo con cura la porta che dà sul cortile e riprendo la mia bicicletta. A quell’ora sono tutti a mangiare, non mi nota nessuno e ridiscendo giù al lago. Imbocco di nuovo la pista ciclabile e ripercorro con calma il tragitto. Quando giungo nei pressi della casetta il cuore mi batte a martello, proseguo e rivedo tutta la scena. Così com’è. Sul rettilineo, a distanza, si notano una bici ed un corpo giù a terra. Freno. Scendo dalla mia bici e mi avvicino. Lentamente. costringo le gambe a sorreggermi, un passo ed un altro…possibile? Ancora nessuno? In quel preciso momento, dalla parte opposta alla mia, sopraggiunge un ciclista bardato da corsa, con tanto di casco regolamentare. L’uomo, lanciato in velocità, frena; un lungo stridìo sull’asfalto, poi cade. Quasi finisce addosso al cadavere, la bici da corsa vola rasente l’erba poi plana nel lago. Caspita! Mollo la bici e gli corro vicina, il casco ha protetto la scatola cranica, l’uomo è solo svenuto, o almeno lo spero. Afferro il cellulare e chiamo soccorso denunciando un cadavere e chiedendo aiuto per l’uomo caduto. So che non devo toccarlo, sollevargli la testa. Gli parlo, con voce tranquilla; mi sembra che senta, una mano si muove. Meno male! Ci mancava che qualcuno morisse a causa dell’ostacolo a terra! Sempre ignorando il cadavere della cliente defunta sollevo lo sguardo quel tanto che basta per vedere se la bici da corsa è affondata; sul ciglio, nell’erba, scorgo una striscia di stoffa. La sciarpina!! Mi alzo, qualche passo e l’afferro. Si è già asciugata da sola, la caccio in tasca e ritorno vicino al ciclista caduto. Poi, succede di tutto. La sirena vicina, i soccorsi, la polizia. Mi ritrovo a dover raccontare … Pare che l’uomo si stia risvegliando, non ho nulla da temere da lui. Se mi ha scorto, ha visto una persona appiedata ancora lontana dal corpo. Prima di andarmene insieme ai poliziotti, da testimone soccorritrice, lancio un’occhiata in direzione dello spaventapasseri. Sempre lì, sempre immobile. Tutto eguale. Tranne che per un particolare: il falcetto è scomparso!! Impallidisco, inciampo nei miei stessi piedi; il poliziotto più vicino a me accenna a sorreggermi, mi esorta a fermarmi. “… Sarà stanca…emozionata…stia calma, un morto e un ferito strabastano, ci mancherebbe il malore!…” Li ho tutti d’attorno, alzo lo sguardo a cercare un po’ d’aria, è normale. Impallidisco ancora di più. Le tendine della casetta sono scomparse alla vista, le persiane sono tutte serrate. Il poliziotto che mi aveva sorretto ha seguito il mio sguardo. “ Bella casetta! Piacerebbe anche a me starmene sulla riva del lago, guardare l’acqua, gli alberi…io adoro il lago. Questo poi! Non è certo il Maggiore, ma la ciclabile! Tutta salute, gratuita. Per la casetta, dopo aver parlato con lei, il mio collega è risalito e ha suonato al portoncino di ingresso… non ha risposto nessuno. Io, ripeto, se avessi un posto così, starei sempre qua. Bello anche lo spaventapasseri! Non se ne trovano più. Si è ripresa? Andiamo allora…”. Procedendo con ordine, prima ho testimoniato…tutto bene. Al termine mi hanno riferito i ringraziamenti del ciclista caduto. Mi sono recata ai funerali della Vampira: una cliente, affezionata! Che disgrazia! Che delitto efferato! E la coincidenza che fossi stata io a ritrovarla! Che stress, povera Ambra! Da allora, me lo ripetono tutti. Io ringrazio, sono calma, gentile, paziente, come avevo promesso al buon Dio. L’unico neo rimane il falcetto. Rintracciato, il proprietario della villetta ha negato di avere assistito al fattaccio. Come poteva? Non si trovava nemmeno in Italia! Da anni la casetta veniva usata da amici suoi, cui aveva lasciato le chiavi. Del falcetto non ha fatto parola. Né di me, pur avendo saputo chi ero grazie ai giornali. Strano è che nessuno del posto o di fuori abbia notato il falcetto e ricollegato lo spaventapasseri al tipo di taglio alla gola. La temporalità degli eventi non mi convince; sono sicura che dietro le tendine tirate qualcuno abbia assistito alla scena, e che dopo abbia ritirato subito l’arma. Non conosco la legge al riguardo, ma lasciare un’arma del genere a portata di mano! Forse si era trattato di un modo per tutelare e ringraziare il padrone di casa; e io ne avevo beneficiato. Oltretutto, chi avrebbe assistito alla morte della Vampira deve anche aver visto che non l’ho assalita. ‘Giocavo’. Mah. Sono trascorsi dei mesi; da quel giorno, se sono sola, non mi reco più all’isolino sulla ciclabile. In compagnia, qualche volta, passando, pedalo sull’asfalto pulito e senza parere saluto lo spaventapasseri; ultimamente mi sembra ringiovanito, vestito ancora meglio di prima. Anche io riesco a convivere col mio segreto; se me la sono cavata vuole dire che lo meritavo, e che il cielo ha esaudito la mia richiesta. Come avevo promesso, pago il fio, per intero: le clienti sono felici con Ambra, la perfetta scimmietta del ‘non vedo non sento non odo’. Io do loro tutto quello che vogliono. Quando proprio vanno fuori dai ranghi mi consolo pensando ‘se sapessero!’, poi sorrido all’idea di come starebbero zitte! Ripeto, ho sbagliato, ma l’eccesso di provocazione mi ha tolto il controllo; io ho sempre avuto rispetto per tutti, quella povera donna no, e mi ha fatto venire i fumi alla testa. Mi dispiace, ma non voglio anche morirci. Nella mia oretta di pausa, ora mi limito a recarmi a piedi sul lungolago di Gavirate; faccio due passi e mi basta. Dalla ciclabile che costeggia la superstrada contemplo la macchia verdissima dell’isolino stagliata contro la riva; il mio Eden perduto! Ci vorrà tempo per rimuovere il tutto. Sempre che lo spettatore della morte della Vampira non cambi idea; non mi ci voglio arrovellare. Il mio motto è, e rimane, ‘Aiutati, che il ciel ti aiuta’.
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