Erano passati molti mesi. Nulla era cambiato, salvo che quel giorno, era un mercoledì, gli impiegati avevano traslocato nei nuovi uffici, finalmente conclusi con molti sforzi e molto impegno da parte di Morelli in particolare.

Gli uffici vecchi, affossati ormai nel centro della grande discarica di roccia, erano stati svuotati. Sui pavimenti erano sparsi un po’ ovunque vecchi documenti privi di interesse. Anche le porte interne e le finestre erano state asportate meticolosamente. Rimanevano le inferriate arrugginite, cementate troppo solidamente per essere rimosse.

Oltre ad alcune tabelle desuete e ad un calendario illustrato dell’anno prima, era rimasto appeso ad una parete il programma lavori, tracciato su un enorme foglio con decine di righe di diversi colori e spessori che identificavano le principali attività del cantiere. Le mete prefissate in questo programma, peraltro concepito in modo del tutto ragionevole dal punto di vista della fattibilità tecnica, non erano state rispettate e gravi ritardi si erano andati sommando. In particolare, lo scavo della Galleria 2 era in ritardo di otto mesi, il che si traduceva, in termini contrattuali, in multe milionarie ai danni della Società che sottoscrivendo il contratto aveva assunto impegni precisi con il Committente. Morelli, non diversamente dai suoi predecessori, non era riuscito ad imprimere una svolta come si era prefisso.

Per celebrare la terminazione dei nuovi uffici, Morelli aveva ordinato di organizzare una bella festa con ballo per tutti gli impiegati e gli assistenti ai lavori sul cantiere. Ci voleva un’occasione per dimenticare tanti problemi quotidiani e farsi tutti insieme una bella bevuta, e quello era l’unico buon pretesto a portata di mano.

Suarez, che da buon messicano sapeva apprezzare le feste, si era subito dato da fare con entusiasmo, ed all’uopo aveva anche fatto venire un’orchestra di Mariachi da San Fernando.

Il refettorio, quella notte, era stato adattato per l’occasione, disponendo i tavoli in modo da formare una specie di pista da ballo al centro della sala. Dal soffitto pendevano striscie di carta colorata, ritagliate ed appese dalle segretarie.

L’orchestrina di Mariachi suonava ormai da ore.

I ventilatori sospesi al soffitto giravano lenti e tropicali. Sembrava stentassero a smuovere quell’aria così pesante di fumo, di vapori alcolici e odori corporali.

Le poche coppie presenti ballavano nella pista, gli altri bevevano ai tavoli, e tutti andavano frequentemente al bagno, ormai ridotto ad una pozza maleodorante.

Fuori, i minatori brillavano candelotti di dinamite appesi ai fili della lavanderia, facendo a gara a chi rompesse più vetri delle baracche vicine con l’onda d’urto nell’aria.

Qualcuno si esibiva con una vecchia pistola, sparando in aria colpi ravvicinati e gridando frasi di circostanza, fra le quali: “que viva Mexico, cabrones!”

All’interno, Morelli stava ballando con la Guadalupe, la bella infermiera bruna e formosa. Sudava copiosamente e la testa gli girava, e si accorse di avere problemi di equilibrio. Allora decise di tornare a sedersi per un po’ al tavolo. Mentre lo faceva, urtò una sedia e la mandò gambe all’aria. Qualcuno la raccolse e la rimise premurosamente al suo posto. Morelli si voltò a guardarlo: era Antonio Jimenez, l’elettricista. Lo ringraziò con un cenno, l’altro rispose: “sempre ai sui ordini, Ingegnere”. E gli riempì il bicchiere di tequila, da una delle ultime bottiglie non ancora vuote che aveva trovato chissà come. Guadalupe gli si sedette al fianco e gli asciugò con un fazzoletto il sudore della fronte. Jimenez, abbozzando un brindisi, vuotò d’un fiato il suo bicchiere, come un uomo che si rispetti deve fare in una festa in Messico. Poi strizzò l’occhio, sorridendo a Morelli, alludendo alla Guadalupe, alludendo al fatto che quella notte sarebbe fatalmente finita nel letto dell’italiano. Morelli fece finta di non capire e, per essere all’altezza della situazione, vuotò nello stesso modo il suo bicchiere. Guadalupe lo guardò preoccupata per quel modo di bere, ma tacque rispettosamente. In fondo quella era una festa, che male c’era a lasciarsi un po’ andare …

Suarez sedeva ad un altro tavolo, ingombro di bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. Quando vide Morelli si alzò barcollando, e lo raggiunse. Era sudato, e una ciocca di capelli bagnata gli cadeva sulla fronte, sorrideva con gli occhi lucidi. Appoggiò una mano sulla spalla di Guadalupe e commentò qualcosa sulla festa che era riuscita bene. Tutti si stavano divertendo.

Vedendo l’elettricista, Suarez si ricordò del telefono, e disse che l’indomani glielo avrebbe consegnato per reinstallarlo nel nuovo gabinetto, quello definitivo. Morelli gli chiese se non l’avesse già prelevato dai vecchi uffici, come avevano precedentemente convenuto. Suarez ammise di essersene dimenticato, perchè quel giorno era stato tutto preso dal compito di organizzare la festa. “Stanotte” disse Morelli preoccupato “dopo la volata in centrale, i camion scaricheranno ancora, ricoprendo tutto. Devo andare subito a prenderlo, o domani rischiamo di non trovarlo più”.

“Ci vado io, Ingegnere” disse subito Antonio Jimenez alzandosi in piedi.

“No, un po’ d’aria mi fará bene. Tornerò subito” rispose Morelli alzandosi.

Guadalupe volle accompagnarlo, preoccupata perché lo vedeva sempre più malfermo sotto l’effetto degli ultimi brindisi al tequila.

Alla luce della luna, inciampando più volte fra le pietre, Morelli faticò a trovare la porta dei vecchi uffici, e faticò ancora di più ad inserire la chiave nella toppa, ma alla fine aprì ed entrarono.

Guadalupe lo cingeva col braccio, lui faceva altrettanto. Quella situazione intima, nel buio e nella solitudine di quel luogo abbandonato, assieme agli effetti disinibitori dell’alcol ingerito, fecero sorgere in Morelli il desiderio di baciarla. Cosa che fece senza incontrare opposizione alcuna. Guadalupe, oltre a lasciarsi baciare e ricambiare ardentemente, prese a sbottonare la camicia di Morelli ed in breve i due giacquero abbracciati, seminudi sul pavimento ingombro di vecchie carte.

Storditi dalla passione che ormai li aveva pervasi, i due non si accorsero dei primi camion che giunevano arrancando lenti dalla centrale, carichi di roccia ancora fumante, appena strappata dal ventre della Montagna.

La porta fu bloccata dai primi massi che rotolarono, e loro rimasero intrappolati nell’edificio pericolante. Nessuno poteva udire le loro richieste di soccorso.

Le pareti precarie stavano cedendo sotto il peso di tonnellate di roccia, quando in un attimo di silenzio Morelli percepì un ronzio proveniente dal telefono, allora istintivamente allungò la mano, prese la cornetta e l’avvicinò all’orecchio. Prima che un masso gli sfondasse il torace, ebbe il tempo di ascoltare la voce di una centralinista che gli chiedeva con quale numero desiderasse essere messo in comunicazione. Ormai era l’alba di giovedì.

In quello stesso momento, i Mariachi dopo aver suonato l’ultima canzone riponevano, esausti e sudati, i loro strumenti nelle custodie consunte.

Gli ubriachi che non erano riusciti a trascinarsi fuori russavano sul pavimento della sala, fra vetri rotti e liquidi versati.

Quelli che potevano camminare si ritiravano a gruppi nelle baracche, cantando e richiamandosi a voce alta.

Il raglio di un asino, prolungato e indifferente a tutti quegli eventi, squarciava ad ondate il cielo stellato che cominciava a impallidire ad oriente, risaltando la sagoma scura e frastagliata delle montagne.

FINE

 

Autore: Franco Garelli