Gli scavi all’interno della Montagna creavano degli spazi vuoti che venivano riempiti con strutture di cemento armato, così come un cancro corrode un organismo e sostituisce tessuti sani con agglomerati di cellule di altra natura. Così pensò Morelli una volta, mentre osservava il trenino che imboccava il tunnel rimorchiando il suo carico cementizio che avrebbe depositato all’interno.
Gli impianti di betonaggio, dove si produceva il calcestruzzo necessario al cantiere, erano alimentati da altri impianti che producevano le sabbie e le ghiaie necessari all’elaborazione delle miscele. Questi ultimi si trovavano al fondo della Valle Toliman, dove il torrente, quando portava acqua, confluiva nel Fiume Montezuma. Nome conferitogli proprio in onore dell’ultimo imperatore Azteca.
In quel triangolo di pianizie pietrosa limitata lateralmente dalle pareti della valle, ed in basso dal grande fiume, si doveva guadagnare spazio per estendere i cumuli di ghiaia dell’impianto, in modo da ottenere riserve che durassero molti giorni, utili in caso di guasti meccanici che paralizzassero i macchinari produttivi.
Proprio nel mezzo dell’area scelta si trovava una pozza, alimentata da una sorgente che sgorgava perennemente da una sponda del torrente e si perdeva fra i sassi del greto. In quella pozza, le donne di alcune umili case vicine lavavano i panni .
Morelli la mattina di quel giorno aveva fatto intubare l’acqua della sorgente, per condurla fuori dall’area da spianare, in un avvallamento del terreno dove si era ricreato un nuovo lavatoio del tutto simile. Aveva fatto spostare anche certe pietre piatte e levigate, che servivano alle donne per fregare i panni. Le stesse pietre erano servite alle loro bisnonne. Probabilmente sin dai tempi in cui Montezuma non era solo il nome di un fiume.
Sul posto si trovava già un bulldozer col motore acceso ed il comignolo fumante. Morelli spiegò all’operatore come dovesse spianare il terreno, e gli disse di iniziare, ma quegli rispose che non poteva farlo; diceva che se lo avesse fatto gli avrebbero sparato. Geronimo Guzman, che abitava in una capanna nelle vicinanze, era un tipo che non scherzava, sosteneva lui, ed anni prima aveva ucciso un tipo solo per avere messo incinta la maggiore delle sue cinque figlie.
Allora Morelli si ricordò di un film che aveva visto al cinema tanti anni prima. Andò alla polveriera e ritornò poco dopo. Si era anche messo il cappello di feltro grigio a tese larghe che gli aveva comprato l’autista Miguelito alla fiera di Tlatispan, azzeccando tra l’altro la sua taglia.
“Starò con te”, disse Morelli all’operatore, e questi si decise ad accendere il motore, borbottando e scuotendo la testa poco convinto. La macchina andava avanti e indietro, rombando, fumando, spingendo con la lama massi pesanti come il rimorso di Geronimo Guzman per avere lasciato orfano di padre il suo proprio nipote.
Un serpente a sonagli, strappato dal suo letargo, si dimenava ferito mortalmente fra le rocce smosse.
Dopo alcuni minuti Morelli vide un tipo che si avvicinava. Doveva essere Geronimo, e camminava lentamente diritto verso di lui. Sulle spalle gli pesava un nome che non si poteva defraudare. Portava a tracolla una vecchia carabina 30.30 a leva, ed aveva un grosso ed antiquato revolver infilato nella cintura dei pantaloni sporchi e stracciati. Un vecchio cane spelato lo seguiva cauteloso e serio a distanza di alcuni passi, tenendo le orecchie orizzontali e la coda fra le gambe.
Quando Geronimo Guzman fu giunto vicino a Morelli, il bulldozer si fermò, l’operatore mise il motore al minimo e cominciò a lisciarsi i baffi con l’indice ed in pollice, l’altra mano sul fianco in attesa di eventi gravi.
Decine di occhi osservavano da lontano.
“Cosa fai?” Chiese Geronimo.
“Spiano tutta quest’area, per fare posto ai cumuli” rispose Morelli facendo un cenno con la mano.
“No. Non puoi toccare la pozza. Le nostre donne ci lavano i vestiti”.
“Ci avevo già pensato, don Geronimo. Da ora le vostre donne laveranno i panni laggiù” disse Morelli, indicando con un movimento combinato della testa e delle labbra il nuovo lavatoio che aveva fatto preparare. E nel dirlo si aprì il giaccone, estrasse un sigaro toscano dal taschino della camicia a quadri e lo accese con un fiammifero controvento. Allora il messicano vide che nella cintura Morelli teneva infilati tre candelotti di dinamite con micce di pochi centimetri. calcolò rapidamente che se avesse sparato al gringo sarebbero venuti i soldati, e non l’avrebbe fatta franca come quando si era trattato di quel povero Cristo del genero.
In un attimo, sebbene analfabeta, Geronimo aveva deciso, trovando la soluzione migliore per tutti: “Va bene, però prima devi mandare la macchina ad aggiustare l’entrata del villaggio”.
Si misero subito d’accordo, il cantiere ebbe il piazzale per i cumuli e Geronimo una bella stradina di cinquanta metri per una camionetta che non avrebbe mai posseduto. Gli asini continuarono a passare per il vecchio sentiero, e le prime piogge avrebbero scavato una profonda erosione nel nuovo passaggio, rendendolo inagibile.
Anche il giovedì che fece seguito a questi eventi, il telefono non venne attivato, per cause peraltro del tutto giustificate e perfettamente comprensibili.
Autore: Franco Garelli
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