Lucia oggi è di malumore, o meglio il suo umore è peggio del solito. Lei non fa mai grigio, ma bianco o nero, alterna ai tonini mielati parole secche che tagliano l’aria peggio di una frusta. E’ scesa dalle sue stanze e si è seduta, siccome non sta bene aspetta che io le passi le cose che ha scelto di mangiare. “Mami, cos’hai?”…io rifletto molto rapidamente sul rischio di una risposta precipitosa. E’ chiaro che lei vuole attribuire a me la freddezza che si sente nell’aria, alzo gli occhi dal piatto e mentre le rispondo “niente, Lucia”, mi sento già sollevata perché ho omesso l’io. Se le avessi risposto “io niente, Lucia” sarebbe stato un errore imperdonabile, sarebbe stato offrirle il pretesto per attaccar briga. Ma non mi è andata del tutto liscia, lei comincia a incurvare le labbra all’ingiù e a socchiudere, con fare mezzo ironico e mezzo minaccioso, quei suoi begli occhietti azzurrini; meglio continuare a tacere, chinare lo sguardo fingendo di non vedere la provocazione, non ci devo cadere, se no poi il coltello nello stomaco comincia a girare. Lei mi conosce alla perfezione o almeno ne è convinta, comunque è maestra nell’arte di manipolare e far soffrire gli altri. E poi io sono la sua vittima preferita, eh, già, sono la mamma, il “tutto è dovuto”, insomma il classico capro espiatorio. Di mattina in genere è vietato rivolgerle la parola prima del “cafè”: lei ha chiarito non solo a me, ma anche a Letizia e a suo padre che, prima dell’assunzione del fatidico beveraggio, è meglio ignorarla perché il suo risveglio è lento e faticoso, quindi potrebbe risponderci male. Perciò, a parte le rare mattine in cui ha qualcosa di serio da fare, ed in genere non si alza mai prima delle nove e passa, tutti ci guardiamo bene dal disturbarla. Letizia è una colf molto particolare, anche lei è incasinata fino al collo, perciò resiste qui dentro meglio di altre che l’hanno preceduta, anche se qualche volta capisco che è dura per lei, che ha pochi anni più della principessa, accettare tutte le incongruenze, per usare un eufemismo, del caratterino di Lucia. Fra loro regna una quasi totale incomprensione, diciamo che si tollerano appena, l’importante è che convivano, se no io mi troverei letteralmente nella palta. “Mami, ma a cosa pensi?”.. Lucia ha cambiato tono, sembra raddolcita, io ero così presa nelle mie considerazioni da non offrire il fianco, evidentemente la ragazza non ha voglia di consumare il pasto completamente in silenzio e pur di parlare con qualcuno forse è disposta ad abbassare un po’ la guardia. Le rispondo assorta“Stavo pensando a tuo padre Lucia, stamattina non l’hai neanche visto…”. Mi interrompe “Lo vedrò stasera, no?..o non torna.. è fuori a cena?”. Dopo il mio “No, non credo”,il dialogo si esaurisce lì ed io mi metto a pensare a suo padre. Fisicamente i due si somigliano non poco, stesso naso leggermente aquilino, stessi angolini della bocca all’ingiù, stesso colorino degli occhi, che diventa più intenso quando li usano per elargire giudizi impietosi senza scomodarsi ad aprire bocca. Lei lo chiama papi, lui la chiama Lucy, tra loro due recitano alla perfezione, naturalmente sempre in bianco e nero; hanno ambedue lo stomaco di ferro, non ho ancora capito chi fra i due confonda la battaglia con la guerra e chi sia destinato a perdere. Papi ha perso la battaglia del cafè e non solo quella, lei per altro non riesce a vincere la guerra, non ancora: a meno che l’amico del cuore, certo Boris, non le fornisca una mano fattiva a farci fuori tutti e due, mami e papi. Non sto pensando a cose truci, per carità, quelle si leggono solo sui giornali, certo che ogni tanto, quando il baldo giovine si richiude con lei al piano di sopra e non si sente volare una mosca, mi vengono strane paure: magari quei due mattacchioni potrebbero architettare qualche scherzone per farmi prendere un bello spavento, poi al resto penserebbe madre natura, è ovvio! Cioè tutto nella norma, chissà perché mi vengono certe buffe idee, sarò proprio un po’ esaurita. Neanche a farlo apposta, come se mi avesse letto nel pensiero, Lucia mi avvisa “Boris mi passa a prendere dopo cena stasera…non mi chiedere a che ora torno…dipende…”. Io annuisco, tanto sarebbe inutile ribattere alcunché, e continuo a pensare. Il paragone che mi era venuto in mente fra Lucia ed il suo papi è comunque un po’ eccessivo, loro sono molto diversi; perlomeno lui è senz’altro una miccia innescata, ma a rigor di logica, con molta fatica, lo si può qualche volta far scendere dal piedistallo. Lei no, lei proprio no, lei è assolutamente perfetta, appartiene a quella categoria di persone che dicono sempre “Io, io, io…e ancora io”. E qui mi chiedo dove posso aver sbagliato così tanto, ma altrettanto rapidamente mi consolo e mi autogiustifico, perché è lei che si è viziata, io a modo mio perlomeno ho cercato di arginarla, altroché! E mentre mando giù un boccone dietro l’altro conditi da questi allegri pensieri, lei ricomincia “Mah, spero di non annoiarmi troppo stasera e comunque di non dovermi sentire le solite tiritele se torno dopo le due, papi è così antiquato!…”. Io abbozzo, non raccolgo e cerco di depistare “Non è che lui sia antiquato, è che se torni tardi sai che il pappagallo si agita, si mette a chiamarti col viva voce e sveglia tutti, in settimana perdere una notte di sonno può diventare pesante per chi lavora, Lucia, non trovi?”. Mai l’avessi detto!! Lei si erige sul busto e comincia a sentenziare su come si debba vivere “…Il lavoro non è tutto nella vita, non si vive per lavorare, se mai si lavora per vivere, almeno chi proprio deve…si, perché io per me avrei bisogno di pochissime cose e quindi dovrei lavorare pochissimo, e poi c’è modo e modo di cavarsela, basta avere l’idea giusta!…E invece il papi si è inchiodato ad una routine quotidiana che evidentemente gli piace e pretenderebbe che io facessi lo stesso…e quella sua premura che io dia gli esami alle scadenze programmate! In questo modo mi fa passare perfino la voglia di studiare e già che lo faccio per dovere…ma che argomenti noiosi, mi fanno passare l’appetito, e poi in questa casa si mangia in un modo inconcepibile, o roba da vecchi o prefatti, io non ce la faccio più!”. Con fare stizzoso si alza e spalanca il frigorifero per vedere se c’è qualcosa di suo gusto, pesca un tubetto di una salsa strampalata, sbatte letteralmente l’anta dell’innocente elettrodomestico, sbuffando si risiede ed annaffia tutto quello che ha nel piatto con quella cosa mezza gialla e mezza rossa, e si rimette a mangiare. Io mi sforzo di convincermi che probabilmente è lei che è in ansia per il prossimo esame, in preventivo fra circa quindici giorni, e quindi se la prende con cose e persone, non c’è da farci caso più che tanto…vuol dire che poi passata la fatidica data, sperando in un esito positivo, cercherò di prenderla con le buone, tentando per l’infinitesima volta di farle capire che ormai è grandicella e che pure lei deve relazionarsi agli altri in modo un pochino più confacente e che lo studio, in fondo, è un lavoro molto più piacevole e produttivo di tanti altri e può portare i suoi frutti in ogni senso… “Mami, perché fai quelle facce? Sembra che tu stia provando la parte per una recita!”. La sua voce ha qualcosa di beffardo, lei intuisce benissimo quello che io stavo cogitando, non lo condivide, ovviamente, ed è altrettanto chiaro che cerca lo scontro: quando decide che ha ragione, e lei per definizione ha sempre ragione, riesce ad affastellare con rapidità vertiginosa una miriade di buoni motivi per cui gli altri sono e saranno sempre degli imbecilli, bontà sua che li compatisce. Le rispondo che le mie facce erano dovute alle crespelle, forse la scadenza era già superata… “Anzi, aspetta che controllo, non vorrei beccarmi qualche accidente, hanno un sapore strano…eh si, bisogna che trovi il tempo di cucinare, una volta lo facevo, poi, sai, troppi impegni, troppi problemi…mi è passata la voglia, però appena riesco…”. Lei pronta ribatte “Ma va’, troverai sempre una scusa per non farlo, per altro ti posso anche dare ragione, io, se mi metto con qualcuno, in casa non voglio fare niente, che ci pensi lui a cucinare, a fare la spesa, a pulire, quanto ai “boccia” io non ne voglio, ma se ne venissero se li curerà lui, io non ho la minima intenzione di chiudermi in casa e sprecare la vita per cose inutili, voglio viaggiare, conoscere gente, mica intristire tra quattro mura o costretta a fare un lavoro che rende poco e non mi piace!”. Miracolosamente siamo quasi arrivate alla frutta, so benissimo dove vuole andare a parare, mi getta la carotina, ma se parlo è pronta a darmi la bastonata finale: lei mi giudica troppo innamorata del mio ruolo di madre e di moglie, disposta a sacrificare tutto sull’altare della famiglia: e se fosse? Certo bisognerebbe avere una famiglia degna del nome, non dover rivestire il palo della luce dei panni dell’imperatore. Io d’altra parte ero stata educata così da mia madre, che pure lei conciliava tutti i suoi impegni privilegiando comunque mio padre e me. Certo lei possedeva nel fare questo, almeno in apparenza, una serenità che io indiscutibilmente non ho, la mia sta diventando piuttosto cupa rassegnazione. Ci devo riflettere bene, non posso certo dare in pasto alla mia dolce “velocis raptor” queste mie considerazioni ancora tutte in fieri, lei farebbe il solito bianco o nero, come spesso fa anche suo padre, e almeno la mia piccola stanza segreta la voglio tenere per me, non importa se il sospetto che ci sia a volte li fa incattivire, l’importante è che se qualche volta crolla un mattone, e non solo uno, io lo rimetta subito a posto più cementato di prima. Lucia spoglia con malagrazia della buccia un paio di banane che si rivelano un poco maculate di nero e dice che secondo lei andrebbero tenute in frigorifero, durerebbero di più… “Non è vero Lucia, in frigo marcirebbero prima, meglio comprarne meno la prossima volta”…Glielo dico in tono pacato, mentre mi accingo a sciacquarmi una mela prima di sbucciarla. Mentre mi alzo colgo un’altra volta il suo sguardo ironico, lei ritiene che lavare la frutta sia un’operazione superflua, e mentre sono in piedi davanti al lavello e faccio scorrere l’acqua sulla mela, tutt’a un tratto mi sembra di essere io quell’acqua che scorre via, che sgorga limpida e poi si perde nelle fogne ma alla fine tornerà al mare. Penso anche che il mio peccato originale l’ho scontato fin troppo “Ma che fai mami, non sei sempre tu a dire che c’è gente che muore di sete, che l’acqua è preziosa, che costa…” . Rispondo soltanto “Già, mi ero distratta…”. Depongo la mia mela sul piatto e la sbuccio con coltello e forchetta, altra cosa che non le piace: lei farebbe concorrenza al tipo della pubblicità del famoso dentifricio. Poi la mangio adagio adagio, guardandola dritto in faccia con espressione asettica. Allora Lucia decide che il suo pasto è finito e senza tanti complimenti si alza e mi lascia con un generico “Ci vediamo”. Sbatte la porta e sale le scale… sento che si è messa a chiacchierare col pappagallo. Con calma mi alzo anch’io, sparecchio meccanicamente e poi, invece di ricominciare a correre frettolosamente in giro, mi siedo, gli impegni interni ed esterni possono anche aspettare, devo finalmente fare il punto della situazione, se no rimango come l’acqua nelle fogne e al mare non arriverò mai più. Rifletto per un po’, lascio che mi scorrano nella mente i fatti salienti degli ultimi dieci anni della mia vita, cerco di collegare cause ed effetti, tiro il bilancio e finalmente decido, apro la porta, quasi urlo su per le scale “Lucia, puoi scendere per favore?”. Lei di rimando “Ma che cavolo c’è?”… “C’è che mi sono dimenticata il dolce, è panna cotta, va mangiata subito, dai, scendi”…dal pianerottolo sento pronunciare un apatico “Eh va beh”. Scende le scale con fare svogliato, sbattendo le ciabatte sui gradini, mi segue in cucina, guarda sul tavolo, non vede niente, mi apostrofa con un “Ma che razza di scherzo è questo?”. Io le rispondo “Nessuno scherzo Lucia, girati, i piatti non sono sul tavolo ma sul carrello”…e mentre lei si gira io osservo rapidamente la sua figura dalla testa ai piedi, prendo bene la mira e le applico sul posteriore una sonora sculacciata, degna del “senta ch’al vègna, guarda ch’al ciòca”, frase che mio padre ripeteva spesso nelle sue reminiscenze del dialetto parmigiano. Lei si volta di scatto inviperita e incredula guardandomi con fare decisamente minaccioso e accenna ad alzare una mano, lentamente, indecisa, intanto prende tempo, la decisione è grave, e mi chiede “Ma come ti sei permessa…cosa ti ha preso…perché?…”. Io la guardo tranquilla, non le dico nulla, mi giro e me ne vado in camera mia, sento che lei borbottando sale le scale, ma questa volta non sbatte la porta e nemmeno le ciabatte, io mi siedo sul letto e penso che è proprio meglio che mi riposi un po’, la strada è lunga e tortuosa, non voglio finire in un lago gelato ma far parte di un’onda spumosa in un bel mare caldo.
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