Fin dalla mia gioventù, anzi dalla mia infanzia, mi hanno sempre attratto le torri ed i campanili, perché sui campanili stanno di solito gli orologi. Mi trovo sulla mia loggia e non è molto che rimanendo qui disteso ho sentito battere le 6 e 30. Il suono dell’ora è come innervato nella vita di un paese ed una volta scandiva i ritmi del lavoro, quando raggiungeva chi lavorava al chiuso o in mezzo ai campi. Una volta anche non troppo
indietro, quando il rumore frastornava meno, non ci incalzava la fretta ed eravamo gente ordinata e puntuale, più di adesso, senza arruffare tutto.
Eppure, in questa atmosfera di imminente autunno, l’ora che suona in alto per chi aggancia a ieri gli attimi del suo oggi ha senso anche adesso; ha senso per me anche la pendola di casa, che ho visto sempre ed era prima di me. Mia madre le dava cinque minuti di anticipo, con la fiducia di garantire la puntualità di noi figli a scuola. Remota è la stagione delle mie elementari: io, come tanti altri bambini, non godevo del cappotto e nessuno possedeva orologi personali. Sveglie sì, ce n’erano per tutte le case, non rappresentavano ancora la parte di antiquariato che fino a non molto tempo fa ho cercato sui mercatini di Fontanellato, Cortemaggiore o Fiorenzuola d’Adda. Ma la fuga inavvertita delle stagioni me l’ha segnata sempre la pendola di casa, che si trovava di solito posta nella stanza d’ingresso. Ora il vecchio segnatempo si è fermato e tace, l’ho visto ieri nella casa di mio fratello che conviveva con mia madre. Tutto è vivo senza esserlo, perché la vita si diluisce in me o mi gioca l’impressione di esserne sfiorato come da alghe che lambiscano qualcosa nell’acqua. L’acqua che sommerge, dà pace, e che, in un momento del mio andare troppo aggrovigliato, debbo avere accarezzato come un’aspirazione di silenzio; ora diventa oppressiva, perché si traduce in un’immagine quasi concreta della solitudine, che, sulla porta di casa, respingo d’istinto. Solo la pendola parlava della casa, la pendola ubriaca, da esatta che era: si concedeva la corsa di due minuti nei 15 giorni in cui durava la carica. Ubriaca è diventata da poco, salta le mezze ore ed accumula le ore come spinta da un estro bizzarro; ricordo che a mezzanotte suonava per ore di luce, ora mio fratello l’ha messa a tacere.
Qui disteso, mi scopro a pensare di essere una pendola, di aver smarrito la dimensione del vivere, non nei quotidiani appuntamenti con gli uomini e le cose, ma nel mio vero essere. Per questo amo gli orologi e mi rallegro quando ricompaiono funzionanti sui campanili e le torri: possono illudermi che i troppi vuoti di umanità e di ordine si colmino un poco.
indietro, quando il rumore frastornava meno, non ci incalzava la fretta ed eravamo gente ordinata e puntuale, più di adesso, senza arruffare tutto.
Eppure, in questa atmosfera di imminente autunno, l’ora che suona in alto per chi aggancia a ieri gli attimi del suo oggi ha senso anche adesso; ha senso per me anche la pendola di casa, che ho visto sempre ed era prima di me. Mia madre le dava cinque minuti di anticipo, con la fiducia di garantire la puntualità di noi figli a scuola. Remota è la stagione delle mie elementari: io, come tanti altri bambini, non godevo del cappotto e nessuno possedeva orologi personali. Sveglie sì, ce n’erano per tutte le case, non rappresentavano ancora la parte di antiquariato che fino a non molto tempo fa ho cercato sui mercatini di Fontanellato, Cortemaggiore o Fiorenzuola d’Adda. Ma la fuga inavvertita delle stagioni me l’ha segnata sempre la pendola di casa, che si trovava di solito posta nella stanza d’ingresso. Ora il vecchio segnatempo si è fermato e tace, l’ho visto ieri nella casa di mio fratello che conviveva con mia madre. Tutto è vivo senza esserlo, perché la vita si diluisce in me o mi gioca l’impressione di esserne sfiorato come da alghe che lambiscano qualcosa nell’acqua. L’acqua che sommerge, dà pace, e che, in un momento del mio andare troppo aggrovigliato, debbo avere accarezzato come un’aspirazione di silenzio; ora diventa oppressiva, perché si traduce in un’immagine quasi concreta della solitudine, che, sulla porta di casa, respingo d’istinto. Solo la pendola parlava della casa, la pendola ubriaca, da esatta che era: si concedeva la corsa di due minuti nei 15 giorni in cui durava la carica. Ubriaca è diventata da poco, salta le mezze ore ed accumula le ore come spinta da un estro bizzarro; ricordo che a mezzanotte suonava per ore di luce, ora mio fratello l’ha messa a tacere.
Qui disteso, mi scopro a pensare di essere una pendola, di aver smarrito la dimensione del vivere, non nei quotidiani appuntamenti con gli uomini e le cose, ma nel mio vero essere. Per questo amo gli orologi e mi rallegro quando ricompaiono funzionanti sui campanili e le torri: possono illudermi che i troppi vuoti di umanità e di ordine si colmino un poco.
Autore: Cardo
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