Dopo un lungo viaggio in treno l’Ingegnere Guido Morelli giunse finalmente a Milano, dove aveva la sede la compagnia di grandi costruzioni per la quale lavorava da anni. Aveva appena terminato un ingaggio, una missione in Africa Nera durata tre anni, ed andava a conoscere la sua nuova destinazione.
Prima di lasciare il cantiere africano, era andato nella cava, e, con un fucile mitragliatore chiesto in prestito ai soldati di guardia alla polveriera delle gallerie, (ed ottenuto in cambio di dodici lattine di birra), aveva crivellato di pallottole il suo vecchio casco da lavoro di plastica bianca. Era un rito, questo della distruzione del casco, che egli ripeteva ogniqualvolta, avendo terminato un lavoro, si accingeva a lasciare il cantiere per raggiungere altri luoghi.
Come gli succedeva ogni volta, mentre scendeva dal treno nella Stazione Centrale di Milano per recarsi a ricevere le nuove consegne della società per cui lavorava, sentiva realizzarsi il passaggio da una tappa conclusa della sua vita ad un’altra ancora ignota, provando una sensazione piacevole di sospensione e libertà. 
All’ora convenuta, Morelli si presentò agli uffici del personale, situati al terzo piano di un immenso palazzaccio del centro. Dopo un’attesa di circa un’ora in una squallida saletta di attesa poco illuminata e male arredata, il Direttore del Personale del Settore Esteri gli spiegò con parole concise ciò che ci si aspettava questa volta da lui, che sin’ora aveva dimostrato di sapersi arrangiare così bene in ogni situazione.
Così aveva detto: ” in ogni situazione”. Il dirigente spiegò che Morelli avrebbe dovuto assumere la direzione di un cantiere in Messico, dove si costruiva una centrale idroelettrica.
Il lavoro non presentava problemi tecnici, asseriva il Direttore, ma inspiegabilmente non avanzava secondo i programmi e le aspettative dell’Impresa.
In quel cantiere, nel corso dell’anno precedente, si erano avvicinati altri quattro direttori, e tutti avevano dato le dimissioni dopo breve tempo, senza giustificarle con motivi plausibili.
Il cantiere si trovava ubicato in una regione montagnosa di difficile accesso, ma presto, almeno, sarebbe stato collegato telefonicamente con il resto del mondo, e dunque anche con la Sede della Società. I lavori di costruzione della linea telefonica erano praticamente finiti, anzi, al suo arrivo Morelli l’avrebbe con tutta probabilità trovata già in funzione.
Morelli, dopo aver ascoltato, prese in mano il contratto che il Direttore gli porgeva perentoriamente e lo firmò senza neanche leggerlo, come d’abitudine, dopodichè si accomiatò con una stretta di mano. Il giorno seguente Morelli partiva senza indugio alla volta del Messico, portandosi dietro la sua “valigia della sopravvivenza”, che conteneva i pochi effetti personali indispensabili per vivere da scapolo un lungo periodo in un posto dove non sapeva cosa avrebbe trovato, né quanto tempo vi sarebbe rimasto.
Dopo anni di servizio sempre presso la stessa Società, si era abituato a grossi cambiamenti “geografici”: non appena riusciva ad ambientarsi in un luogo, cominciando a conoscerne la gente, i costumi e la lingua, non appena riusciva a farsi degli amici, e magari anche una fidanzata, giungeva il momento di sradicarsi per ricominciare tutto da capo in un altro mondo, in un’altra realtà; così…nel giro di pochi giorni. Da un continente all’altro. Da un clima all’altro. Dalla città al deserto e via dicendo.
Questi cambiamenti per lui erano come una rinascita, un processo di rinnovamento e purificazione. In questo confronto fra il vecchio e il nuovo, nello sforzo di adattarsi ogni volta a realtà molto diverse, egli riconosceva il meccanismo che lo teneva vivo, il processo dinamico che lo salvava dall’abitudine. Morelli si era da tempo convinto che l’abitudine, ed il raggiungimento di certezze, rappresentassero una sorta di resa alla vita, ovvero una rassegnata rinuncia all’uso dell’intelligenza. Ricordava con un’ombra di malinconia i vecchi amici ed i compagni di scuola, orami perduti da anni, rimasti dopo gli studi ad esercitare una onorabile professione nella cittadina d’origine. I più si erano anche sposati, e si erano preoccupati di assicurare un ” agiato” futuro alla prole, consolidando la propria posizione nella loro amata e rassicurante realtà, il tutto all’insegna del più mortale staticismo. Loro andavano avanti sicuri di sé, accumulando anno dopo anno vite borghesi vissute all’insegna della coerenza e del buon senso. Vite solide e stabili come antiche piramidi, accumuli di giornate tutte eguali. Fino al sopraggiungere di una morte che avrebbe coronato
la loro inutile esistenza, rendendo vana quella costruzione fatta di pazienza e monotonia. Così pensava il Morelli, e quello stile di vita borghese gli sembrava una trappola, da cui egli fuggiva riluttante. Peraltro, la sua fuga era senza fine, ed in qualche modo senza speranza, in quanto neanche essa poteva dargli il senso di un fine ultimo.
Con queste idee, e convinto che avrebbe fatto meglio dei suoi quattro predecessori, il Morelli partiva alla volta del Messico. Nella valigia portava una fotografia del suo primo amore perduto, sacrificato anch’esso, dolorosamente, all’altare del rinnovamento.

Autore: Franco Garelli